Non esistono vite completamente facili, nè completamente difficili.
Nè completamente felici o completamente senza una via d'uscita.
Esistono vite, esistono persone e, dietro e dentro, esistono storie.
Quella che ho avuto tra le mani è stata la storia di un'amica-coraggio, Stefania Pastori, della piccola grande Sofia di otto anni ma anche la storia di Carla, di Cecilia, di Francesca, di Veronica. Forse della tua vicina di casa.
E' la storia di un amore che si trasforma in violenza. Quindi non è la storia di un amore.
Chiamiamo le cose con il loro nome.
E' la storia di un uomo debole che sfoga la sua rabbia verso il mondo contro la donna che lo ama, che gli ha donato una figlia meravigliosa , Sofia.
Sofia che al quinto mese di vita manifesterà i segni di una malattia rara, una forma di epilessia che colpisce un bambino ogni 150 mila. Handicap che lui non accetterà a tal punto da iniziare una serie infinita di violenze fisiche e psicologiche su Stefania.
Che lo accecherà a tal punto da non far vedere ai suoi occhi la guarigione quasi miracolosa.
Un uomo come tanti, che Stefania ha avuto la forza di allontanare, di denunciare, di combattere, nonostante si sia ritrovata da sola, improvvisamente, senza casa, senza lavoro. Ma con una valigia di forza e dignità.
La cronaca è ricca di impietosi e lucidissimi casi di amori sbagliati, ormai finiti, che continuano a logorare, spesso fino ad epiloghi impietosi, anime che non riescono più ad uscirne.
Stefania no. Stefania è donna, è madre che salva. Stefania è GLOSS (Gruppo di Lavoro e Osservatorio Sessismo e Stalking).
Stefania è una risposta.
La conoscenza è sapere. Il sapere combatte ogni forma di ignoranza.
Conosci una forma di ignoranza più bassa della violenza?
Corpi ribelli, S. Pastori- Casa Editrice Kimerik
martedì 9 dicembre 2014
L'imperfezione dei ricordi- di Francesco Borrasso
E' giunto sulla mia scrivania un libro che ha l'odore del sale. Quello del mare, dell'acqua che è pronta e bolle, quello delle lacrime.
Un libro scritto da una penna precisa, innamorata delle pagine bianche da riempire.
Sono giovani. Sono me, te, tuo figlio.
Diego è a Napoli da sempre. Non ha mai abbandonato la sua città, neppure quando sono andati via tutti, lasciandolo da solo alle prese con il suo dolore e il suo senso di colpa per la morte di un amico suicida.
Non hanno esitato ad andarsene i suoi amici di infanzia, Antonio, Genny e Nico.
E' andata via anche Giudy, che sembrava essere il volto dell'amore.
Da quel momento trascorrono giorni lenti e vuoti, banali cerchi concentrici alla ricerca di un modo per non pensare, per non lasciarsi sopraffare dai ricordi.
Già, i ricordi.
"Non è colpa mia se le cose finiscono. Non ci posso fare niente se alcune volte bisogna arrendersi all'evidenza".
I ricordi, quelli che si radicano al centro, in un posto improbabile tra testa e cuore. Quella tragica notte li ha un po’ cambiati tutti e ognuno di loro si è aggrappato alla propria effimera esistenza, come ci si aggrappa a un salvagente per non affogare. L’occasione per rincontrarsi, però, farà riaffiorare tutto ciò che in fondo era stato lasciato in sospeso e da cui non si può fuggire per sempre.
Un delicato ed appassionato intreccio di vite, di amicizie di luoghi che faranno sembrare la casa di Diego tutte le case del mondo.
Ed il gioco implacabile dei sentimenti che "ecco cos'è la mancanza, è che quando c'è lei mi sembra di fare un passo nel vuoto e quando non c'è, il vuoto sono io".
L'imperfezione dei ricordi, F. Borrasso- Ed. Rupe Mutevole
Un libro scritto da una penna precisa, innamorata delle pagine bianche da riempire.
Sono giovani. Sono me, te, tuo figlio.
Diego è a Napoli da sempre. Non ha mai abbandonato la sua città, neppure quando sono andati via tutti, lasciandolo da solo alle prese con il suo dolore e il suo senso di colpa per la morte di un amico suicida.
Non hanno esitato ad andarsene i suoi amici di infanzia, Antonio, Genny e Nico.
E' andata via anche Giudy, che sembrava essere il volto dell'amore.
Da quel momento trascorrono giorni lenti e vuoti, banali cerchi concentrici alla ricerca di un modo per non pensare, per non lasciarsi sopraffare dai ricordi.
Già, i ricordi.
"Non è colpa mia se le cose finiscono. Non ci posso fare niente se alcune volte bisogna arrendersi all'evidenza".
I ricordi, quelli che si radicano al centro, in un posto improbabile tra testa e cuore. Quella tragica notte li ha un po’ cambiati tutti e ognuno di loro si è aggrappato alla propria effimera esistenza, come ci si aggrappa a un salvagente per non affogare. L’occasione per rincontrarsi, però, farà riaffiorare tutto ciò che in fondo era stato lasciato in sospeso e da cui non si può fuggire per sempre.
Un delicato ed appassionato intreccio di vite, di amicizie di luoghi che faranno sembrare la casa di Diego tutte le case del mondo.
Ed il gioco implacabile dei sentimenti che "ecco cos'è la mancanza, è che quando c'è lei mi sembra di fare un passo nel vuoto e quando non c'è, il vuoto sono io".
L'imperfezione dei ricordi, F. Borrasso- Ed. Rupe Mutevole
Lettera ad uno studente fuori sede
Caro/a,
tu non sai chi sono io, ma io conosco perfettamente chi sei tu.
E non ti tedierò con frasi tipo "ci son passata prima di te" o "ai miei tempi....".
No.
Questa sarà per te una lettera dal futuro. Vivila così.
Tu che sei nato in una terra larga come un fazzoletto. Tu che per comprare un disco o un libro dovevi aspettare settembre, o la fiera, o andare in motorino con altri nel paese più grande.
Tu che ti sembravano tutti diversi da te.
Tu che chiudevi gli occhi e immaginavi che Daniele Silvestri avesse scritto Occhi da orientale per te, col pubblico che applaudiva e poi tu salivi sul palco perchè lui ti faceva roteare forte e "Nataliaaaaa è proooonto!!".
Tu andrai via e cercherai la tua strada. Lo dirai a tutti che lo fai per quello, ma in realtà hai una paura fottuta della tua strada, perchè tu conosci solo le strade di quel fazzoletto lì. Ed hai pure un senso dell'orientamento ridicolo.
E te ne andrai. E farai bene. Farai cose nuove, respirerai un'aria che ti sembrerà più lieve e rarefatta.
Farai lunghe code in mense buie mangiando pasta al fintopomodoro fingendo che sappia di buono e porterai lo yogurt o lo stracchino a casa per la cena. Avrai coinquilini che confonderanno il giorno con la notte, che potranno essere simili a te o completamente diversi. Io ne ho avuta una che buttava gli assorbenti nel cesso.
E pagherai l'affitto in nero a gente poco seria che verrà a riscuoterlo seriamente al 4 del mese.
E sentirai in terra straniera tanti accenti simili al tuo.
E ti chiederai quante cazzo di strade debbano esistere se ognuno cerca la propria.
Riceverai i "pacchi della felicità" dai tuoi e cenerete tu e tutto il centro alpini per una settimana.
E la valigia dopo le feste di Natale peserà in modo improponibile. Io sono stata fermata dai cani antidroga a Pisa, in stazione, alle 5 del mattino, dopo un viaggio di nove ore. Erano soppressate. Erano risate. Come cazzo li addestrate i cani?
E ti siederai di fronte a commissioni che vorranno sapere in cinque minuti quanto sei bravo o quanto sei sfigato. E se ne fregheranno della tua salivazione, della tua preparazione e della tua solitudine. E tu ti sentirai fortissimo e debolissimo insieme.
E tuo padre ti dirà di prenderti una pizza quando le cose non andranno come speravi.
E le cose si ripeteranno così forte e così velocemente che ti sembrerà come quando hai in un pugno chiuso dei coriandoli che poi basta un soffio.
E tutti quei piccoli pezzettini che ti stavano sul palmo della mano, se ne andranno, si disperderanno e ti lasceranno ricordi.
Per favore, se puoi evita i Quattro salti in padella. Gli spinaci filanti mi hanno nutrita in molte serate, ma poi ho scoperto che quella non è una mozzarella, è un surrogato. Non so, è come fare sesso con una che si spoglia in chat. Cioè che senso ha il surrogato della mozzarella? Poi vabbè fai tu. Dai Quattro salti forse ci dobbiam passare tutti.
E ti innamorerai di un amore che non capirai subito. Sarai più libero di prima, ma non avrai ancora capito bene chi sei. Quindi vivitelo, ma sappi che non sarà per sempre.
Forse non ci sarà mai il "per sempre". Tu, comunque, vivi.
E, quando poi gli altri ti diranno che sei grande abbastanza per cambiare ancora, lo farai.
Abbandonerai felpa e pantaloncini e comprerai la giacca da colloquio di lavoro.
E dentro di te sarai sempre il fuori sede che non conosce il nome delle strade.
Io sono tuttora quella che che vive di fronte al Di per di e di fianco al negozio di arredo bagni. Sperando che nessuno chiuda o cambi nome.
Ed un giorno, inspiegabilmente, mentre ti asciughi i capelli, o esci dall'ufficio con i colleghi che ti sembreranno tutti più precisi di te, o cammini in centro, ti verrà su "quell'ovo sodo che non va nè su nè giù".
E lo riconoscerai. Sarai bravissimo nel sapere che è lui e che non è catarro da raffreddamento.
Sentirai che i tuoi piedi richiamano le tue tue radici e vorresti trasformarti in albero per avere finalmente il senso della solidità.
Chiuderai gli occhi immaginando vite parallele mai vissute, e saprai che non è mai troppo tardi, per davvero, per capire chi sei.
Ho letto che quando compiamo una scelta, non è mai il 100% di noi che decide, ma solo il 51%.
Ecco, abbi il coraggio di ascoltare anche il 49%. Ovunque tu sia. Chiunque tu sia.
Con affetto.
Una fuori sede come tante
tu non sai chi sono io, ma io conosco perfettamente chi sei tu.
E non ti tedierò con frasi tipo "ci son passata prima di te" o "ai miei tempi....".
No.
Questa sarà per te una lettera dal futuro. Vivila così.
Tu che sei nato in una terra larga come un fazzoletto. Tu che per comprare un disco o un libro dovevi aspettare settembre, o la fiera, o andare in motorino con altri nel paese più grande.
Tu che ti sembravano tutti diversi da te.
Tu che chiudevi gli occhi e immaginavi che Daniele Silvestri avesse scritto Occhi da orientale per te, col pubblico che applaudiva e poi tu salivi sul palco perchè lui ti faceva roteare forte e "Nataliaaaaa è proooonto!!".
Tu andrai via e cercherai la tua strada. Lo dirai a tutti che lo fai per quello, ma in realtà hai una paura fottuta della tua strada, perchè tu conosci solo le strade di quel fazzoletto lì. Ed hai pure un senso dell'orientamento ridicolo.
E te ne andrai. E farai bene. Farai cose nuove, respirerai un'aria che ti sembrerà più lieve e rarefatta.
Farai lunghe code in mense buie mangiando pasta al fintopomodoro fingendo che sappia di buono e porterai lo yogurt o lo stracchino a casa per la cena. Avrai coinquilini che confonderanno il giorno con la notte, che potranno essere simili a te o completamente diversi. Io ne ho avuta una che buttava gli assorbenti nel cesso.
E pagherai l'affitto in nero a gente poco seria che verrà a riscuoterlo seriamente al 4 del mese.
E sentirai in terra straniera tanti accenti simili al tuo.
E ti chiederai quante cazzo di strade debbano esistere se ognuno cerca la propria.
Riceverai i "pacchi della felicità" dai tuoi e cenerete tu e tutto il centro alpini per una settimana.
E la valigia dopo le feste di Natale peserà in modo improponibile. Io sono stata fermata dai cani antidroga a Pisa, in stazione, alle 5 del mattino, dopo un viaggio di nove ore. Erano soppressate. Erano risate. Come cazzo li addestrate i cani?
E ti siederai di fronte a commissioni che vorranno sapere in cinque minuti quanto sei bravo o quanto sei sfigato. E se ne fregheranno della tua salivazione, della tua preparazione e della tua solitudine. E tu ti sentirai fortissimo e debolissimo insieme.
E tuo padre ti dirà di prenderti una pizza quando le cose non andranno come speravi.
E le cose si ripeteranno così forte e così velocemente che ti sembrerà come quando hai in un pugno chiuso dei coriandoli che poi basta un soffio.
E tutti quei piccoli pezzettini che ti stavano sul palmo della mano, se ne andranno, si disperderanno e ti lasceranno ricordi.
Per favore, se puoi evita i Quattro salti in padella. Gli spinaci filanti mi hanno nutrita in molte serate, ma poi ho scoperto che quella non è una mozzarella, è un surrogato. Non so, è come fare sesso con una che si spoglia in chat. Cioè che senso ha il surrogato della mozzarella? Poi vabbè fai tu. Dai Quattro salti forse ci dobbiam passare tutti.
E ti innamorerai di un amore che non capirai subito. Sarai più libero di prima, ma non avrai ancora capito bene chi sei. Quindi vivitelo, ma sappi che non sarà per sempre.
Forse non ci sarà mai il "per sempre". Tu, comunque, vivi.
E, quando poi gli altri ti diranno che sei grande abbastanza per cambiare ancora, lo farai.
Abbandonerai felpa e pantaloncini e comprerai la giacca da colloquio di lavoro.
E dentro di te sarai sempre il fuori sede che non conosce il nome delle strade.
Io sono tuttora quella che che vive di fronte al Di per di e di fianco al negozio di arredo bagni. Sperando che nessuno chiuda o cambi nome.
Ed un giorno, inspiegabilmente, mentre ti asciughi i capelli, o esci dall'ufficio con i colleghi che ti sembreranno tutti più precisi di te, o cammini in centro, ti verrà su "quell'ovo sodo che non va nè su nè giù".
E lo riconoscerai. Sarai bravissimo nel sapere che è lui e che non è catarro da raffreddamento.
Sentirai che i tuoi piedi richiamano le tue tue radici e vorresti trasformarti in albero per avere finalmente il senso della solidità.
Chiuderai gli occhi immaginando vite parallele mai vissute, e saprai che non è mai troppo tardi, per davvero, per capire chi sei.
Ho letto che quando compiamo una scelta, non è mai il 100% di noi che decide, ma solo il 51%.
Ecco, abbi il coraggio di ascoltare anche il 49%. Ovunque tu sia. Chiunque tu sia.
Con affetto.
Una fuori sede come tante
martedì 25 novembre 2014
Sono quel che
Sono quel che sono.
Sono una pagina continuamente bianca, che alle volte si riempie, altre mi respinge.
Sono il mare che ho negli occhi, per le volte che l'ho guardato e per tutte le volte che invece l'ho solo sognato.
Sono il frutto sull'albero, sono quello che cade lontano dal ramo ma mai troppo dalle radici.
Sono anche il frutto che non c'è ancora ma che cresce.
Sono tutto quello che non so, tutto quello che rimpiango e tutto ciò di cui ho paura e ne tremo.
Sono la forza inaspettata e la lacrima che non tace.
Sono mille donne in una, e nessuna mai senza un perchè.
Sono una pagina continuamente bianca, che alle volte si riempie, altre mi respinge.
Sono il mare che ho negli occhi, per le volte che l'ho guardato e per tutte le volte che invece l'ho solo sognato.
Sono il frutto sull'albero, sono quello che cade lontano dal ramo ma mai troppo dalle radici.
Sono anche il frutto che non c'è ancora ma che cresce.
Sono tutto quello che non so, tutto quello che rimpiango e tutto ciò di cui ho paura e ne tremo.
Sono la forza inaspettata e la lacrima che non tace.
Sono mille donne in una, e nessuna mai senza un perchè.
giovedì 30 ottobre 2014
Il Signor Sottutto e il Signor Sogniente
Adesso sedetevi si, che vi racconto una storia.
Un pomeriggio come tanti il Signor Sottutto ed il Signor Sogniente si incontrarono, casualmente, al bar del centro. Si conoscevano da anni ed ogni tanto parlavano ed ogni tanto no. Dipendeva dal tempo.
Il Signor Sottutto aveva sempre i suoi occhialetti tondi da professore e quella vecchia borsa di pelle che aveva comprato a Firenze, alla ditta Bruscoli, e che odorava ancora di Arno e finocchiona.
Il Signor Sogniente beveva il suo chinotto con la scorzetta d'arancia al bancone del bar, l'unica cosa che ingurgitava ancora, da quando aveva smesso col gin.
-Buonasera
-Buonasera a Lei signò, che vole?
- Un the per me, con immersione del filtro al massimo per tre minuti cortesemente, altrimenti il the perde le sue...
- Un the per lui Alfrè, pago io
- Cosa legge?
- Ma gniente, non capiso gniente. Ce so sti barconi che naufragano in mezzo al mare e la gente li odia. Cioè sti poracci crepano, e la gente li odia. Se so' scordati tutti de quanno sui barconi ce stavamo noi. Un parente de mi zio, Enzo, mi racconta che quando ha lasciato Civitavecchia pe anda' in Canada c'ha messo na settimana ad arriva'. E quanno ci è arrivato l'hanno preso a lavorà coi russi, come muratore. E c'aveva tanto di quel freddo che lui a Civitavecchia nun c'era abituato. No dicevo, c'aveva tanto di quel freddo che i diti dei piedi e delle mani li si sono spezzati a metà. Mo' c'ha na bella casa, in Cadana, e mezzi diti.
- Vede mio caro il termine razzismo, nella sua definizione più semplice, si riferisce ad un'idea, spesso preconcetta e comunque scientificamente errata, come dimostrato dalla genetica delle popolazioni e da molti altri approcci metodologici, che la specie umana (la cui variabilità fenotipica, l'insieme di tutte le caratteristiche osservabili di un vivente, è per lo più soggetta alla continuità di una variazione clinale) possa essere suddivisibile in razze biologicamente distinte, caratterizzate da diverse capacità intellettive, valoriali o morali, con la conseguente convinzione che sia possibile determinare una gerarchia secondo cui un particolare, ipotetico, raggruppamento razzialmente definito possa essere definito superiore o inferiore a un altro. E' tutto profondam...
- Se vabbè ho capito. Grazie assai. Poi boh, oggi è na giornata che me chiedo ma perchè al negozio de Rosa, che vende maglioni, mo c'ha dei tabelloni che dicano che ce trovi il sale?
- Ma buon uomo, la parola "Sale" è inglese e può significare sia vendita sia saldo a seconda di che cosa la precede: quando viene usato FOR SALE allora vuole dire che qualcosa è in vendita, quando viene usato ON SALE invece qualcosa è in saldo. Basterebbe un dizionario anche tascab...
- Se vabbè, grazie assai. Ma ora dico ma c'è Gigi no che se sta a indebita' pe' compra' la macchina nova a su moglie. Che poi dico lei nun lavora e la usa solo pe' anda in palestra. Cioè spennono soldi per annà a spennere altri sordi per snellirse er culo. Ma non farebbe prima a cammina'? Cioè io faccio tutto a piedi e me se po' dì tutto, che non so' bello per carità, ma so un figurino!
- Ma sant'uomo, si chiama consumismo.Il consumismo è un fenomeno economico-sociale tipico delle società industrializzate che consiste nell’acquisto indiscriminato di beni di consumo da parte della massa, suscitato ed esasperato dall’azione delle moderne tecniche pubblicitarie. In sociologia il termine descrive gli effetti dell'identificazione, vera o presunta, della felicità personale con l'acquisto, il possesso e il consumo continuo di beni materiali. Ma buon uomo lo vede? Mi pone quesiti e poi non ascolta! Ma Le sembra il modo? Ma perbacco!
- Me scusi Signo' me scusi assai, è che questo è proprio er problema mio. Io me perdo.
- Si perde?
- Si si signo'. Io me perdo. Me perdo sempre.
- Ma sant'iddio come ci si fa a perdere adesso? Esistono metodologie infinite, dalla più nobile bussola, alle pratiche mappe cartacee, fino a giungere ai meravigliosi prodigi elettronici ed ingegneristici, che dotano ciascuno di noi di una capacità di orientamento praticamente, ovunque Signo....
- No no io nun è che me smarrismo, io me perdo. Me so perso tante volte. Per esempio quella volta ho perso l'occasione bona perchè mentre gli altri stavano a studia', io ero in riva al mare a guardà il tramonto e poi ogni tanto chiudevo gli occhi e pensavo d'esse Eric Clapton e d'avere in mano na chitara. Cioè io suonavo pe' davero, ma me mancava la chitara. E' na cosa che faccio spesso, de finge de suona'.
Poi quella volta me so perso la bici nova nova, perchè nun c'avevo la catena e nun me ricordavo a che palo l'avevo attaccata. Ma più de tutto a me, me fa perdere la nostalgia.
-Si spieghi meglio, in che senso la nostalgia?
- Eeeee eeee, la nostalgia è na gran bastarda. Sa che penso signo'? La nostalgia è come quando tu c'hai voglia di pollo arrosto, te butti in strada, giri tutti i girarrosti della città, tutti hanno finito er pollo, ma nell'aria c'è ancora l'odore. Quell'odore bastardo che te fa spezzà la voglia dentro ar gargarozzo e lì ce crepa, perchè la voglia te rimane, ma tu il pollo nun te lo poi magnà. E allora ti ricordi dell'ultima coscia che te sei magnato, con la pelle dorata e croccante e te sembra che felice così nun sarai più, che il pollo così dico, nun lo trovarai più.
- O mio Dio, ma Lei....ma Lei, mi ha lasciato senza parole, sa?
- No signo' è solo che le parole che devi scova' dentro er core so' più difficili dele quattro cazzate che c'ha invece sempre sulla punta dela lingua. Se scavi bene le trovi, nun te preoccupà. Anche se a scuola nun celo impara nessuno.
- Insegna
-Ecco, appunto.
Un pomeriggio come tanti il Signor Sottutto ed il Signor Sogniente si incontrarono, casualmente, al bar del centro. Si conoscevano da anni ed ogni tanto parlavano ed ogni tanto no. Dipendeva dal tempo.
Il Signor Sottutto aveva sempre i suoi occhialetti tondi da professore e quella vecchia borsa di pelle che aveva comprato a Firenze, alla ditta Bruscoli, e che odorava ancora di Arno e finocchiona.
Il Signor Sogniente beveva il suo chinotto con la scorzetta d'arancia al bancone del bar, l'unica cosa che ingurgitava ancora, da quando aveva smesso col gin.
-Buonasera
-Buonasera a Lei signò, che vole?
- Un the per me, con immersione del filtro al massimo per tre minuti cortesemente, altrimenti il the perde le sue...
- Un the per lui Alfrè, pago io
- Cosa legge?
- Ma gniente, non capiso gniente. Ce so sti barconi che naufragano in mezzo al mare e la gente li odia. Cioè sti poracci crepano, e la gente li odia. Se so' scordati tutti de quanno sui barconi ce stavamo noi. Un parente de mi zio, Enzo, mi racconta che quando ha lasciato Civitavecchia pe anda' in Canada c'ha messo na settimana ad arriva'. E quanno ci è arrivato l'hanno preso a lavorà coi russi, come muratore. E c'aveva tanto di quel freddo che lui a Civitavecchia nun c'era abituato. No dicevo, c'aveva tanto di quel freddo che i diti dei piedi e delle mani li si sono spezzati a metà. Mo' c'ha na bella casa, in Cadana, e mezzi diti.
- Vede mio caro il termine razzismo, nella sua definizione più semplice, si riferisce ad un'idea, spesso preconcetta e comunque scientificamente errata, come dimostrato dalla genetica delle popolazioni e da molti altri approcci metodologici, che la specie umana (la cui variabilità fenotipica, l'insieme di tutte le caratteristiche osservabili di un vivente, è per lo più soggetta alla continuità di una variazione clinale) possa essere suddivisibile in razze biologicamente distinte, caratterizzate da diverse capacità intellettive, valoriali o morali, con la conseguente convinzione che sia possibile determinare una gerarchia secondo cui un particolare, ipotetico, raggruppamento razzialmente definito possa essere definito superiore o inferiore a un altro. E' tutto profondam...
- Se vabbè ho capito. Grazie assai. Poi boh, oggi è na giornata che me chiedo ma perchè al negozio de Rosa, che vende maglioni, mo c'ha dei tabelloni che dicano che ce trovi il sale?
- Ma buon uomo, la parola "Sale" è inglese e può significare sia vendita sia saldo a seconda di che cosa la precede: quando viene usato FOR SALE allora vuole dire che qualcosa è in vendita, quando viene usato ON SALE invece qualcosa è in saldo. Basterebbe un dizionario anche tascab...
- Se vabbè, grazie assai. Ma ora dico ma c'è Gigi no che se sta a indebita' pe' compra' la macchina nova a su moglie. Che poi dico lei nun lavora e la usa solo pe' anda in palestra. Cioè spennono soldi per annà a spennere altri sordi per snellirse er culo. Ma non farebbe prima a cammina'? Cioè io faccio tutto a piedi e me se po' dì tutto, che non so' bello per carità, ma so un figurino!
- Ma sant'uomo, si chiama consumismo.Il consumismo è un fenomeno economico-sociale tipico delle società industrializzate che consiste nell’acquisto indiscriminato di beni di consumo da parte della massa, suscitato ed esasperato dall’azione delle moderne tecniche pubblicitarie. In sociologia il termine descrive gli effetti dell'identificazione, vera o presunta, della felicità personale con l'acquisto, il possesso e il consumo continuo di beni materiali. Ma buon uomo lo vede? Mi pone quesiti e poi non ascolta! Ma Le sembra il modo? Ma perbacco!
- Me scusi Signo' me scusi assai, è che questo è proprio er problema mio. Io me perdo.
- Si perde?
- Si si signo'. Io me perdo. Me perdo sempre.
- Ma sant'iddio come ci si fa a perdere adesso? Esistono metodologie infinite, dalla più nobile bussola, alle pratiche mappe cartacee, fino a giungere ai meravigliosi prodigi elettronici ed ingegneristici, che dotano ciascuno di noi di una capacità di orientamento praticamente, ovunque Signo....
- No no io nun è che me smarrismo, io me perdo. Me so perso tante volte. Per esempio quella volta ho perso l'occasione bona perchè mentre gli altri stavano a studia', io ero in riva al mare a guardà il tramonto e poi ogni tanto chiudevo gli occhi e pensavo d'esse Eric Clapton e d'avere in mano na chitara. Cioè io suonavo pe' davero, ma me mancava la chitara. E' na cosa che faccio spesso, de finge de suona'.
Poi quella volta me so perso la bici nova nova, perchè nun c'avevo la catena e nun me ricordavo a che palo l'avevo attaccata. Ma più de tutto a me, me fa perdere la nostalgia.
-Si spieghi meglio, in che senso la nostalgia?
- Eeeee eeee, la nostalgia è na gran bastarda. Sa che penso signo'? La nostalgia è come quando tu c'hai voglia di pollo arrosto, te butti in strada, giri tutti i girarrosti della città, tutti hanno finito er pollo, ma nell'aria c'è ancora l'odore. Quell'odore bastardo che te fa spezzà la voglia dentro ar gargarozzo e lì ce crepa, perchè la voglia te rimane, ma tu il pollo nun te lo poi magnà. E allora ti ricordi dell'ultima coscia che te sei magnato, con la pelle dorata e croccante e te sembra che felice così nun sarai più, che il pollo così dico, nun lo trovarai più.
- O mio Dio, ma Lei....ma Lei, mi ha lasciato senza parole, sa?
- No signo' è solo che le parole che devi scova' dentro er core so' più difficili dele quattro cazzate che c'ha invece sempre sulla punta dela lingua. Se scavi bene le trovi, nun te preoccupà. Anche se a scuola nun celo impara nessuno.
- Insegna
-Ecco, appunto.
martedì 21 ottobre 2014
Quando credevo negli oroscopi
Abbiamo avuto un momento in cui tutto era facile, e per tutto esisteva una spiegazione.
Se Saturno entrava in Venere, per noi del Sagittario era come avere un coltello nel fianco. Però con la nostra pietra della fortuna addosso(l'ametista o l'ambra adesso non ricordo) e nel nostro giorno fortunato della settimana e con Marte nel controciclone tutto poteva avere un senso diverso. Quando compravo il Cioè e credevo fortemente nell'esistenza degli occhialetti che se li indossavi potevi fare i raggi X alla gente, i problemi avevano un odore meno acre. Ricordo che una volta (portavo ancora i maglioni fatti ai ferri da mia nonna e l'apparecchio ai denti) c'era scritto che se avessi voluto fare innamorare di me il ragazzo del mio cuore avrei dovuto comprare del filo rosso, ricavarne un braccialetto e legarlo al polso con tre nodi ripetendo nella mia mente il suo nome. Non funzionò. Ma probabilmente solo perchè il filo rosso non lo comprai, ma lo rubai a casa di nonna. Certo che anche tu, se non rispetti ed esegui alla lettera le istruzioni che cazzo vuoi? Bo, il ragazzo di quel cuore poi si mise con una più grande di me e di lui, che aveva già le tette. Io ancora no. Ed ignoravo che quella mancanza sarebbe stata permanente. Credevo nel Cioè, nei sogni e nell'oroscopo. Poi anche la cosa del Cioè mi passò. Non so dirvi se per via del braccialetto rosso. Mi passò però, e fu come quando Ileana mi disse che non esisteva Babbo Natale. Feci finta d nulla, anzi feci finta di saperlo perfettamente anch'io. Ed invece no, non solo non lo sapevo, ma mi venne una salivazione accelerata. Non facevo in tempo a deglutire che dovevo farlo ancora e ancora e poi di nuovo. Avevo dimenticato quella sensazione lì fino all'altra mattina. Ti ricordi? Quando ho letto che Tavecchio, quello sospeso dalla Uefa per sei mesi, in Italia invece era diventato in Italia presidente della Figc. Feci finta di nulla, che non mi importasse che uno stronzo come tanti, razzista, ignorante, condannato a livello europeo, da noi non solo fosse applaudito, ma addirittura nominato Presidente. Saliva...saliva...saliva...Babbo Natale...Babbo Natale...Babbo Natale. Eppure dovresti aver capito ormai come cazzo gira no? Non hai più l'apparecchio e i maglioni di nonna da 20 anni no? Esssuuu...Eeesveglia!
Tu dici che la rabbia che ha ragione è rabbia giusta e si chiama indignazione. Lo dice l'oroscopo.
giovedì 25 settembre 2014
I giorni felici della tua vita
C’è un tizio che ha la fissa della felicità. Non in senso letterario, filosofico. Non è che contempla le stelle limonando con una Kelly qualunque dai capelli rossi e urla al cielo "cielo quanto sono felice".
No
Arthur C. Brooks ha pubblicato sul New York Times un articolo su felicità e infelicità.
Che dice? In definitiva, quel che dicono il Dalai Lama, Gesù Cristo, la maggior parte dei filosofi e mia nonna: ama le persone, non le cose. Il materialismo non ti renderà felice, il successo, i soldi e la fama non ti renderanno felice, gli altri invece sì: amare parenti, amici, conoscenti, estranei e persino nemici è l’unica cosa che può garantirti la felicità, o almeno dissipare l’infelicità.
Nel suo articolo Brooks parte da Abd al Rahaman III, emiro del decimo secolo, il quale lasciò scritto che, dopo aver regnato cinquant’anni tra assolute ricchezze e onori, poteri e piaceri, aveva contato quanti giorni era stato felice in senso assoluto nella sua vita, e aveva concluso che erano stati quattordici.
Quattordici.
Ogni volta che leggo questo genere di riflessioni – sacrosante, per carità – da parte di qualche importante analista americano in primis penso che ste ricerche son sempre americane.
Poi ho pensato all’emiro. Un gioco irresistibile. Contare i giorni di assoluta felicità. Felici dal risveglio alla sera, pisolini compresi.
Felici senza macchie
La felicità, quella che non si misura a chilo, né a giornate ma a istanti, emozioni, squarci, confusi brandelli di immagini, sogni e ricordi: un giorno completamente e pienamente felice, dal momento del risveglio a quello in cui si va a dormire, non è scontato da ritrovare.
Io mi ricordo che se m’avessero detto che poi non le facevano più avrei comprato più scatoline del Mulino Bianco.
Ve le ricordate? Le scatoline che le aprivi e c’erano delle sorprese mai viste.
Io ero felice. O magari solo spensierata in quell’istante. Va a sapere
Qualcuno citerà nascita di figli, matrimoni e in generale innamoramenti (ricambiati, se no l’amore è un inferno), esami superati, successi professionali, viaggi, incontri, disgrazie scampate, dolori superati, ricordi legati alla contemplazione della natura.
Ma quattordici giorni completamente felici non sono uno scherzo.
Provate a contare.
Chi fa più di quattordici vince. Anzi ha già vinto.
No
Arthur C. Brooks ha pubblicato sul New York Times un articolo su felicità e infelicità.
Che dice? In definitiva, quel che dicono il Dalai Lama, Gesù Cristo, la maggior parte dei filosofi e mia nonna: ama le persone, non le cose. Il materialismo non ti renderà felice, il successo, i soldi e la fama non ti renderanno felice, gli altri invece sì: amare parenti, amici, conoscenti, estranei e persino nemici è l’unica cosa che può garantirti la felicità, o almeno dissipare l’infelicità.
Nel suo articolo Brooks parte da Abd al Rahaman III, emiro del decimo secolo, il quale lasciò scritto che, dopo aver regnato cinquant’anni tra assolute ricchezze e onori, poteri e piaceri, aveva contato quanti giorni era stato felice in senso assoluto nella sua vita, e aveva concluso che erano stati quattordici.
Quattordici.
Ogni volta che leggo questo genere di riflessioni – sacrosante, per carità – da parte di qualche importante analista americano in primis penso che ste ricerche son sempre americane.
Poi ho pensato all’emiro. Un gioco irresistibile. Contare i giorni di assoluta felicità. Felici dal risveglio alla sera, pisolini compresi.
Felici senza macchie
La felicità, quella che non si misura a chilo, né a giornate ma a istanti, emozioni, squarci, confusi brandelli di immagini, sogni e ricordi: un giorno completamente e pienamente felice, dal momento del risveglio a quello in cui si va a dormire, non è scontato da ritrovare.
Io mi ricordo che se m’avessero detto che poi non le facevano più avrei comprato più scatoline del Mulino Bianco.
Ve le ricordate? Le scatoline che le aprivi e c’erano delle sorprese mai viste.
Io ero felice. O magari solo spensierata in quell’istante. Va a sapere
Qualcuno citerà nascita di figli, matrimoni e in generale innamoramenti (ricambiati, se no l’amore è un inferno), esami superati, successi professionali, viaggi, incontri, disgrazie scampate, dolori superati, ricordi legati alla contemplazione della natura.
Ma quattordici giorni completamente felici non sono uno scherzo.
Provate a contare.
Chi fa più di quattordici vince. Anzi ha già vinto.
giovedì 18 settembre 2014
Sette zucche strette e storte
Ho comprato un sacco grande di iuta. E ci ho messo dentro del tempo.
E’ stato difficile da imbrigliare, ma alla fine, l’ho ingannato.
Ci è entrato il tempo a pezzettini e restava spazio. E lo spazio vuoto così come lo spazio bianco, lì da soli, con poco tempo, avevano paura.
Allora ho trovato tutte le porte che non si sono aperte e quelle parole si sono aggrappate a tralci secchi. come le viti quando non c’è sole abbastanza.
In un sacco, grande di iuta.
Ci ho messo dentro il tempo di comprare poche cose, poche cose necessarie e così, velocemente, ho iniziato.
Ci ho messo quel telefono che squilla aspettando le risposte, ci ho messo l’ultima fetta di torta che mi hai rubato. Ci ho messo quel treno che era mio ma che avevo sbagliato binario. Ci ho messo quel libro che ho perso sull’aereo andando in Canada. Ci ho messo tutte le firme dei miei compagni di scuola raccolte sulla Smemo sventrata. Ci ho messo il maglione grigio a righe che mi manca. Ci ho messo le scorzette d’arancia ricoperte di cioccolato fondente. Lo smalto rosso praticamente nuovo. La prima poesia, quella per la festa del papà. La frase scritta dietro l’invicta che faceva tipo the best, ma sapeva di altro. Ci ho messo tutta la valigia di Pisa, il libro di diritto costituzionale che m’aveva infiammato l’anima. C’ho messo Robin Williams che m’ha spezzato il cuore. C’ho messo anche lontano lontano di Tenco, che mi ammagona sempre un po’ troppo questi poveri occhi. Una bottiglietta d’acqua naturale, che comunque bisogna berne almeno due litri al giorno. I bonghi del Benja, che spacciava, tra l’altro, anche cd dietro la mensa. I concetti di chakra, di pratica sciamanica, di karma, di yoga e di toponomastica: tutti ed in egual modo troppo incomprensibili per me.
Solo che adesso s’è mischiato tutto.
La valigia con i binari. Lo smalto con i bonghi.
Robin Williams con Tenco.
Tra l’altro. Perché?
Cavolo Luigi. Cioè anche il tuo amico Gino c’ha provato, poi però tra na Sandrelli e na Vanoni, cioè, come dire. Ha trovato delle alternative.
E tu Robin? Ho capito. Canale 5 ha trasmetto 1.178 volte Mrs. Doubtfire e tu non ne potevi più. Ok. Però farlo così…. Che ne so...Avresti potuto farlo in modo più originale, al grido di good morning Vietnam per esempio... Con un naso finto...Con delle piume di struzzo intorno al collo.
Invece no, tutto ovattato. Tutto chiuso Tutto dentro.
Ho comprato un grande sacco di iuta, un giorno, per caso, ma non so cosa farne. E’ troppo pesante per portarlo con me, ma anche troppo pesante per abbandonarlo.
Forse, se mi va, lo ingoio.
E’ stato difficile da imbrigliare, ma alla fine, l’ho ingannato.
Ci è entrato il tempo a pezzettini e restava spazio. E lo spazio vuoto così come lo spazio bianco, lì da soli, con poco tempo, avevano paura.
Allora ho trovato tutte le porte che non si sono aperte e quelle parole si sono aggrappate a tralci secchi. come le viti quando non c’è sole abbastanza.
In un sacco, grande di iuta.
Ci ho messo dentro il tempo di comprare poche cose, poche cose necessarie e così, velocemente, ho iniziato.
Ci ho messo quel telefono che squilla aspettando le risposte, ci ho messo l’ultima fetta di torta che mi hai rubato. Ci ho messo quel treno che era mio ma che avevo sbagliato binario. Ci ho messo quel libro che ho perso sull’aereo andando in Canada. Ci ho messo tutte le firme dei miei compagni di scuola raccolte sulla Smemo sventrata. Ci ho messo il maglione grigio a righe che mi manca. Ci ho messo le scorzette d’arancia ricoperte di cioccolato fondente. Lo smalto rosso praticamente nuovo. La prima poesia, quella per la festa del papà. La frase scritta dietro l’invicta che faceva tipo the best, ma sapeva di altro. Ci ho messo tutta la valigia di Pisa, il libro di diritto costituzionale che m’aveva infiammato l’anima. C’ho messo Robin Williams che m’ha spezzato il cuore. C’ho messo anche lontano lontano di Tenco, che mi ammagona sempre un po’ troppo questi poveri occhi. Una bottiglietta d’acqua naturale, che comunque bisogna berne almeno due litri al giorno. I bonghi del Benja, che spacciava, tra l’altro, anche cd dietro la mensa. I concetti di chakra, di pratica sciamanica, di karma, di yoga e di toponomastica: tutti ed in egual modo troppo incomprensibili per me.
Solo che adesso s’è mischiato tutto.
La valigia con i binari. Lo smalto con i bonghi.
Robin Williams con Tenco.
Tra l’altro. Perché?
Cavolo Luigi. Cioè anche il tuo amico Gino c’ha provato, poi però tra na Sandrelli e na Vanoni, cioè, come dire. Ha trovato delle alternative.
E tu Robin? Ho capito. Canale 5 ha trasmetto 1.178 volte Mrs. Doubtfire e tu non ne potevi più. Ok. Però farlo così…. Che ne so...Avresti potuto farlo in modo più originale, al grido di good morning Vietnam per esempio... Con un naso finto...Con delle piume di struzzo intorno al collo.
Invece no, tutto ovattato. Tutto chiuso Tutto dentro.
Ho comprato un grande sacco di iuta, un giorno, per caso, ma non so cosa farne. E’ troppo pesante per portarlo con me, ma anche troppo pesante per abbandonarlo.
Forse, se mi va, lo ingoio.
martedì 9 settembre 2014
E' andata così
Non so da dove iniziare.
Vi vedo lì, per terra, sofferenti.
E non faccio nulla. Non muovo un dito.
Cosa volete che faccia?
E’ andata così.
Vi ricordate, ad esempio, quella sera assurda, fatta di capricci e sudori?
Capire quale fosse la vostra idea mi risultò impossibile.
E il giorno della mia laurea?
Siate stati degli stronzi senza un domani.
La precisione non era nella vostra indole, ma quel giorno indomiti, indomabili, sfuggenti.
E adesso cos’è questo lamento? Che fate, piangete? Adesso?
Abbiamo avuto momenti felici, per carità. Fatti di vento che accarezza, di mani che sentono.
Quel tuffo a labbra salate il fuoco e quattro stronzate…per carità , ma
E’ andata così.
Non voglio dire, con questo, che sia una chiusura definitiva, la nostra.
Per carità. Dicono che mai dire mai.
Ci saranno dei giorni in cui ci sfioreremo ancora.
No, non è un addio.
Ma per adesso voi siete li, ed io qui.
Qui, eretta.
Voi?
Voi vi farete scopare da lui, lei e l’altro. Non mi importa più.
Io sono qui, eretta
E col collo scoperto.
Vi ho solo tagliati via.
Anche Barbie luce di stelle dovrebbe farlo.
Con affetto,
il Caschetto.
Vi vedo lì, per terra, sofferenti.
E non faccio nulla. Non muovo un dito.
Cosa volete che faccia?
E’ andata così.
Vi ricordate, ad esempio, quella sera assurda, fatta di capricci e sudori?
Capire quale fosse la vostra idea mi risultò impossibile.
E il giorno della mia laurea?
Siate stati degli stronzi senza un domani.
La precisione non era nella vostra indole, ma quel giorno indomiti, indomabili, sfuggenti.
E adesso cos’è questo lamento? Che fate, piangete? Adesso?
Abbiamo avuto momenti felici, per carità. Fatti di vento che accarezza, di mani che sentono.
Quel tuffo a labbra salate il fuoco e quattro stronzate…per carità , ma
E’ andata così.
Non voglio dire, con questo, che sia una chiusura definitiva, la nostra.
Per carità. Dicono che mai dire mai.
Ci saranno dei giorni in cui ci sfioreremo ancora.
No, non è un addio.
Ma per adesso voi siete li, ed io qui.
Qui, eretta.
Voi?
Voi vi farete scopare da lui, lei e l’altro. Non mi importa più.
Io sono qui, eretta
E col collo scoperto.
Vi ho solo tagliati via.
Anche Barbie luce di stelle dovrebbe farlo.
Con affetto,
il Caschetto.
lunedì 21 luglio 2014
La riserva di Tempo
Lui era lì. Pronto come sempre.
Preciso. Scattante.
Né un minuto in più, né uno in meno.
Tempo era in forma, con l’addominale tirato, il piede scalpitante. Il borsone pronto.
Le scarpette con tutti tacchetti uguali, non nuovi, non usurati.
La partita, quella contro la squadra avversaria, i Ritar Datari, la prepara da sempre.
Strani loro. Bizzarri.
Perdenti, dice lui.
Di solito giocano sempre in uno in meno perché il loro più forte, lui, Per Digiorno, con quel nome che risuona come una bestemmia, quando va bene, si attarda negli spogliatoi.
Quando va male, lo trovi di sicuro a bere con quei due idioti di Inaf Fidabile e Tra Stullone e alla partita non ci arriva proprio.
Peccato non aver giocato tutte le partite perché ha i piedi buoni per davvero.
Questione di fortuna, dicono al bar.
La fidanzata di Tempo, la signorina Ora, è sul suo motorino della Fusorario ultimo modello, per dargli uno strappo. Lei non aspetta e Tempo lo sa bene.
Arrivano al Momento Giusto, dove c’è l’erbetta sintetica di un verde acceso. Il sole, un po' di vento e due nuvolette di pari dimensione. Ci son tutti.
Ecco, tutti tutti no.
Mai una volta eh? Mai na gioia!
Per fortuna arbitra il signor Quarto Doraccademico. Non fa storie, di solito.
Tempo, Preciso, Inorario, Puntuale, Sonopronto ci sono.
Arrivano, a ruota Tra Strullone, suo fratello Tra Felato, Inaf Fidabile, Sto Arrivando.
In lontananza anche Per Digiorno e il panchinaro Dueminutie Sondate (era al telefono con la sua fidanzata che lo aspetta solitamente sempre per la cena della sera prima)
-Chi manca?
-Il ragazzetto, la riserva di Tempo, il ragazzetto...
-Quale ragazzetto?
-Ma si, che te lo ricordi, dai. Voleva giocare anche lui e Preciso gli aveva detto precisamente di arrivare al Momento Giusto e all’ora programmata qui ed adesso. Né un minuto in più né un meno.
-Ma quale ragazzetto? Il figlio di quella che vende …
-Eccomiiii….Scusateee….Son qui! Son qui!Signore son qui!
-E tu saresti scusa?
-Piacere, io sono Iociprovo, il figlio di…
-Cosa sai fare esattamente?
-Chi? Io?
-E si tu ragazzetto. Che sai fare? Scatti? Tiri in porta? Pari? Anticipi le mosse? Le scadenze? Paghi le bollette? Non ti dimentichi neppure un numero civico? Cavalchi? Prendi tutti i treni? Che sai fare?
-Io… beh…io..
-Io ogni mattina mi sveglio
-Eh, bravo e poi?
-No, dicevo. Ogni mattina mi sveglio, mi lavo
(uuu si lava lui, con quei capelli lì, né lunghi né corti) (shhhh Sonopronto dai!!Non urlare!)
-Mi lavo, prendo un caffè, mi vesto e vado.
-E dove vai?
-Mi preparo.
-Bene si ho capito, ma ti prepari per fare cosa?
-Eh, signor Tempo, ad esempio stamattima mi son preparato per essere la sua riserva di stasera.
-E come ti sei allenato?
-A non avere paura della paura e a portare tutto questo con me- disse Iociprovo- indicando il grande zaino ai sui piedi.
-E cosa avresti lì dentro? Disse Tempo spazientito.
Intanto Ora, annoiata, era andata via a mangiare una pizza al nuovo locale Cogli al Volo.
-E…ci metto un po’ programmazione, un po’ speranza, un po’ di fiducia, un po’ di testa, un po’ di cuore e un po’ di culo. Poi un panino al formaggio ed una felpa che qui fa freddo. Infatti lo zainetto pesa un sacco, signor Tempo, vuol provare?
-Io non provo. Mai. Non ho bisogno di una riserva come te.
- Ne è proprio sicuro, signore?
-Certo che si. Come osi, ragazzino!!!
-No vede signore- disse Iociprovo- è che io potrei esserLe utile. Se dovesse perdere un treno, ad esempio, io potrei tirar fuori la speranza; se dovesse andare storto un appuntamento, io potrei darle un pezzo di fiducia. Potrei provarci quantomeno. E se tutto dovesse andar male, potremmo montare il cuore ed il culo e mangiare dei panini al formaggio. Non trova?
Signore? Non trova?
Iociprovo era lì, aspettava una risposta, ma non arrivò nulla.
Dicono che Tempo dia ragione dopo un po', ma deve aspettare che sua cugina Notte gli porti un consiglio.
Stava per andar via, un po’ deluso, ma mica tanto. L’aveva messo in conto.
Posso fare la riserva di qualcun altro, pensava tra sé e sé, quando gli chiesero.
-Scusa, ma dicevi che sei figlio di chi?
-Io sono il penultimo di tanti fratelli, forse conoscete la mia mamma.
Vende un po’ di tutto lì, all’angolo. Ogni tanto regala anche delle cose. Ogni tanto no. Da un sacco di consigli.
Degli schiaffi anche. Ha la mano pesante quando dà gli schiaffi. Una volta mi ha lasciato un livido che c’ho messo tre anni a dimenticarlo. Però è brava, per davvero. Ogni tanto parla così veloce che non la capisco subito e spesso fa delle cose che ti verrebbe da chiederle il perché. Però alla fine comprendi tutto e ti dai delle risposte. E poi è bravissima a preparare il passato, a volte lo fa con le verdure, altre volte solo coi ricordi. Non riscalda mai le minestre, a meno che tu non lo voglia. E se la inviti, ti porta sempre in dono un presente che puoi usare (o non usare) come meglio credi. Non è mai a mani vuote, lei.
E’ la signora Vita.
La conosce signore?
Preciso. Scattante.
Né un minuto in più, né uno in meno.
Tempo era in forma, con l’addominale tirato, il piede scalpitante. Il borsone pronto.
Le scarpette con tutti tacchetti uguali, non nuovi, non usurati.
La partita, quella contro la squadra avversaria, i Ritar Datari, la prepara da sempre.
Strani loro. Bizzarri.
Perdenti, dice lui.
Di solito giocano sempre in uno in meno perché il loro più forte, lui, Per Digiorno, con quel nome che risuona come una bestemmia, quando va bene, si attarda negli spogliatoi.
Quando va male, lo trovi di sicuro a bere con quei due idioti di Inaf Fidabile e Tra Stullone e alla partita non ci arriva proprio.
Peccato non aver giocato tutte le partite perché ha i piedi buoni per davvero.
Questione di fortuna, dicono al bar.
La fidanzata di Tempo, la signorina Ora, è sul suo motorino della Fusorario ultimo modello, per dargli uno strappo. Lei non aspetta e Tempo lo sa bene.
Arrivano al Momento Giusto, dove c’è l’erbetta sintetica di un verde acceso. Il sole, un po' di vento e due nuvolette di pari dimensione. Ci son tutti.
Ecco, tutti tutti no.
Mai una volta eh? Mai na gioia!
Per fortuna arbitra il signor Quarto Doraccademico. Non fa storie, di solito.
Tempo, Preciso, Inorario, Puntuale, Sonopronto ci sono.
Arrivano, a ruota Tra Strullone, suo fratello Tra Felato, Inaf Fidabile, Sto Arrivando.
In lontananza anche Per Digiorno e il panchinaro Dueminutie Sondate (era al telefono con la sua fidanzata che lo aspetta solitamente sempre per la cena della sera prima)
-Chi manca?
-Il ragazzetto, la riserva di Tempo, il ragazzetto...
-Quale ragazzetto?
-Ma si, che te lo ricordi, dai. Voleva giocare anche lui e Preciso gli aveva detto precisamente di arrivare al Momento Giusto e all’ora programmata qui ed adesso. Né un minuto in più né un meno.
-Ma quale ragazzetto? Il figlio di quella che vende …
-Eccomiiii….Scusateee….Son qui! Son qui!Signore son qui!
-E tu saresti scusa?
-Piacere, io sono Iociprovo, il figlio di…
-Cosa sai fare esattamente?
-Chi? Io?
-E si tu ragazzetto. Che sai fare? Scatti? Tiri in porta? Pari? Anticipi le mosse? Le scadenze? Paghi le bollette? Non ti dimentichi neppure un numero civico? Cavalchi? Prendi tutti i treni? Che sai fare?
-Io… beh…io..
-Io ogni mattina mi sveglio
-Eh, bravo e poi?
-No, dicevo. Ogni mattina mi sveglio, mi lavo
(uuu si lava lui, con quei capelli lì, né lunghi né corti) (shhhh Sonopronto dai!!Non urlare!)
-Mi lavo, prendo un caffè, mi vesto e vado.
-E dove vai?
-Mi preparo.
-Bene si ho capito, ma ti prepari per fare cosa?
-Eh, signor Tempo, ad esempio stamattima mi son preparato per essere la sua riserva di stasera.
-E come ti sei allenato?
-A non avere paura della paura e a portare tutto questo con me- disse Iociprovo- indicando il grande zaino ai sui piedi.
-E cosa avresti lì dentro? Disse Tempo spazientito.
Intanto Ora, annoiata, era andata via a mangiare una pizza al nuovo locale Cogli al Volo.
-E…ci metto un po’ programmazione, un po’ speranza, un po’ di fiducia, un po’ di testa, un po’ di cuore e un po’ di culo. Poi un panino al formaggio ed una felpa che qui fa freddo. Infatti lo zainetto pesa un sacco, signor Tempo, vuol provare?
-Io non provo. Mai. Non ho bisogno di una riserva come te.
- Ne è proprio sicuro, signore?
-Certo che si. Come osi, ragazzino!!!
-No vede signore- disse Iociprovo- è che io potrei esserLe utile. Se dovesse perdere un treno, ad esempio, io potrei tirar fuori la speranza; se dovesse andare storto un appuntamento, io potrei darle un pezzo di fiducia. Potrei provarci quantomeno. E se tutto dovesse andar male, potremmo montare il cuore ed il culo e mangiare dei panini al formaggio. Non trova?
Signore? Non trova?
Iociprovo era lì, aspettava una risposta, ma non arrivò nulla.
Dicono che Tempo dia ragione dopo un po', ma deve aspettare che sua cugina Notte gli porti un consiglio.
Stava per andar via, un po’ deluso, ma mica tanto. L’aveva messo in conto.
Posso fare la riserva di qualcun altro, pensava tra sé e sé, quando gli chiesero.
-Scusa, ma dicevi che sei figlio di chi?
-Io sono il penultimo di tanti fratelli, forse conoscete la mia mamma.
Vende un po’ di tutto lì, all’angolo. Ogni tanto regala anche delle cose. Ogni tanto no. Da un sacco di consigli.
Degli schiaffi anche. Ha la mano pesante quando dà gli schiaffi. Una volta mi ha lasciato un livido che c’ho messo tre anni a dimenticarlo. Però è brava, per davvero. Ogni tanto parla così veloce che non la capisco subito e spesso fa delle cose che ti verrebbe da chiederle il perché. Però alla fine comprendi tutto e ti dai delle risposte. E poi è bravissima a preparare il passato, a volte lo fa con le verdure, altre volte solo coi ricordi. Non riscalda mai le minestre, a meno che tu non lo voglia. E se la inviti, ti porta sempre in dono un presente che puoi usare (o non usare) come meglio credi. Non è mai a mani vuote, lei.
E’ la signora Vita.
La conosce signore?
venerdì 30 maggio 2014
In punta di naso
Io sono una che con gli odori di solito, capisce.
Che strada prendere, quale abbandonare. Che cibo ingerire, cosa evitare.
Chi baciare e a chi stringere solo la mano.
Mi fido del mio naso, diciamo, che non sarà bellissimo, ma è il mio ed io ci voglio bene.
Gli odori sono un po’ le mie molliche da Pollicino, diciamo.
So distinguere, per farti un esempio, tre diverse traverse di via Garibaldi perché una sa di pane, una di crepes e l’altra di gelato.
Stamattina l’aria aveva l’odore della fine della scuola. Proprio quell’odore lì.
L’odore del giubbotto di jeans sbottonato e dell’ Invicta portata su una spalla sola (almeno fino all’arrivo al cancello di casa).
L’odore della pasta che si può fare col pomodoro fresco perché la conserva non serva più.
L’odore di quella dannata ultima interrogazione di matematica.
Ho l’odore delle gambe che un po’ tremano sempre e del cuore un po’ lanciato in aria che speriamo non cada.
Di quei sogni un po’ azzardati.
I sogni di fine maggio
Che l’anno prossimo allora è un anno importante.
Che inizio il liceo. Che ho come compagna di banco sempre lei ed i suoi occhi azzurri. Che ho preso un bel voto con la prof di francese. Che c’è quel ragazzo di quinta che mi prende un po’ in giro perché son piccola. Che inizio a studiare filosofia. Ho parlato di me in quel tema. Di chi volevi che parlassi scusa, con questa mano e questa penna ?Poi ho gli esami. Poi devo scegliere l’università.
Con quei sogni azzardati sempre aperti, mai rinchiusi in cassetti o nascosti sotto il materasso.
Sempre in degli scatoloni mai imballati.
Ed un pezzettino in tasca.
I sogni di fine maggio.
Che hanno l’odore un po’ leggero dell’aria che cambia e che, ci puoi scommettere, annuncia qualcosa.
Che poi, magari, ti sposi. E quel cuore lì è ancora che svolazza e che lotta e che vola e che ci crede.
All’ultima interrogazione di matematica, invece, non ci ho mai creduto.
Che strada prendere, quale abbandonare. Che cibo ingerire, cosa evitare.
Chi baciare e a chi stringere solo la mano.
Mi fido del mio naso, diciamo, che non sarà bellissimo, ma è il mio ed io ci voglio bene.
Gli odori sono un po’ le mie molliche da Pollicino, diciamo.
So distinguere, per farti un esempio, tre diverse traverse di via Garibaldi perché una sa di pane, una di crepes e l’altra di gelato.
Stamattina l’aria aveva l’odore della fine della scuola. Proprio quell’odore lì.
L’odore del giubbotto di jeans sbottonato e dell’ Invicta portata su una spalla sola (almeno fino all’arrivo al cancello di casa).
L’odore della pasta che si può fare col pomodoro fresco perché la conserva non serva più.
L’odore di quella dannata ultima interrogazione di matematica.
Ho l’odore delle gambe che un po’ tremano sempre e del cuore un po’ lanciato in aria che speriamo non cada.
Di quei sogni un po’ azzardati.
I sogni di fine maggio
Che l’anno prossimo allora è un anno importante.
Che inizio il liceo. Che ho come compagna di banco sempre lei ed i suoi occhi azzurri. Che ho preso un bel voto con la prof di francese. Che c’è quel ragazzo di quinta che mi prende un po’ in giro perché son piccola. Che inizio a studiare filosofia. Ho parlato di me in quel tema. Di chi volevi che parlassi scusa, con questa mano e questa penna ?Poi ho gli esami. Poi devo scegliere l’università.
Con quei sogni azzardati sempre aperti, mai rinchiusi in cassetti o nascosti sotto il materasso.
Sempre in degli scatoloni mai imballati.
Ed un pezzettino in tasca.
I sogni di fine maggio.
Che hanno l’odore un po’ leggero dell’aria che cambia e che, ci puoi scommettere, annuncia qualcosa.
Che poi, magari, ti sposi. E quel cuore lì è ancora che svolazza e che lotta e che vola e che ci crede.
All’ultima interrogazione di matematica, invece, non ci ho mai creduto.
martedì 13 maggio 2014
Gratta, gratta, Michelino!
Mi capita, di tanto in tanto, di offrire caffè a degli sconosciuti.
Come sabato per esempio, al bar Tabacchi.
Io ero io e lui aveva una bici rotta e molta fame.
Come oggi, per esempio, sempre al bar tabacchi, ma non lo stesso di sabato.
Lui aveva una camicia bianca di due taglie inferiori rispetto alla propria taglia effettiva, aveva preso un caffè, ma finito i soldi.
Gli ultimi cinque euro se li era fumati al grido della folla incitante "gratta, gratta, Michelino!".
Lui sorrideva e grattava con le unghie, che erano diventate un po' nere e un po' d'argento.
E più grattava più divenatava triste in volto.
Aveva grattato tutto e non aveva vinto nulla, neppure un caffè.
Neppure quel caffè già preso.
Gratta, gratta, Michelino!
A volte sembra tutto un caso, una scommessa.
I giorni, la vita, intendo.
Ti capita, no, di avere quei giorni in cui apri gli occhi ed incroci le dite nello stesso istante, no?
Che ti leghi la felicità come fosse un nodo al fazzoletto, per non dimenticartela sopra il primo tram, insieme all'ombrello giallo.
La mia amica ha un contratto per tre giorni.
Gratta, gratta, Michelino!
Che magari vinci una supplenza!
Ti sei laureato e o lavori in un call center o emigri in America?
Gratta, gratta, Michelino!
Prendi 468 euro di pensione, è il 13 di maggio e vorresti comprarti una bistecca?
Gratta, gratta, Michelino!
Ero lì, e guardavo.
Ma Michelino, ma perchè? Ma non ti vogliono mica bene sai? Non sempre il bar degli amici è un mondo reale.
Lo so, lo vedo, che tu il tuo mondo ce l'hai in testa, ma sai qui è diverso.
Qui è tutto così strano che alle volte basta una camicia di due taglie più piccola a diventar il pretesto di mezz'ora di prese per il culo. Lascia perdere Michelino, che mentre tu gratti quello stupido cartoncino, lo Stato ha già grattato le tue tasche, e quei quattro coglioni al bar, la tua anima ed i tuoi occhi.
Non sono amici, Michelino.
No. Volevo dirtelo ed invece ti ho solo lasciato il caffè pagato.
Al bar tabacchi.
mercoledì 30 aprile 2014
Coincidenze a colori
Non l’ho mai visto dal vivo, un arcobaleno.
Forse solo una volta ci sono andata vicino.
Ero in macchina e qualcuno ha detto guarda-guarda-guarda-l’arcobaleno!
Ma son stata meno rapida a girarmi di quanto non sia stata la macchina a svoltare e cambiare corsia ed orizzonte.
Per cui nulla, nessun arcobaleno e nessun secchio col tesoro.
Ed oggi, che tutti pubblicate sui social e nelle piazze sta cazzo di foto dell’arcobaleno di ieri a Torino, sento riaffiorare in me questo antico dolore.
L’arcobaleno non esiste ragazzi.
Vero?
Ditemi la verità.
E’ un’illusione ottica.
E’ lo specchio delle pozzanghere.
E’ la pioggia che si riflette sui binari dei tram.
E’ il punto in cui si bacia la goccia con il fango.
L’arcobaleno è come l’amore. Non si spiega se non in sé stesso.
Esiste solo nei cuori di chi lo vive,diciamo, come negli occhi di chi lo guarda.
Per cui non è ancora il mio momento.
Diciamo.
Quanto lo incontrerò, riconoscerò il suo passo tra i passi di mille altri arcobaleni e bla-bla-bla ed i suoi colori saranno solo miei.
E finalmente potrò chiarirmi le idee sull’indaco.
Solo dimmi quanto ti fermi, arcobaleno?
Cioè che faccio. Riesco a scattarti una foto anch’io e vivere con la straziante malinconia del tuo ricordo?
Che faccio? T’aspetto?
O me ne frego?
Ma si, ma si. Me ne frego.
Faccio così.
Quando arrivi, arrivi.
E se ci becchiamo bene, sennò….
Sennò pazienza.
Viaggerò distratta su qualche altra auto e, se sarà destino, sarà.
Non ti rincorro, eh no, caro mio.
Figo tu, sette colori, tutti diversi.
Che poi, diciamolo, come outfit è un filo esagerato anche per Belen.
C’è una rappresentazione di te sulle finestre di qualsiasi scuola materna del globo.
Sei diventato più simbolo della pace tu che Gandhi.
Bo.
Non sarà che te la tiri un po’ troppo?
Quindi comunque ieri eri qui e non mi hai voluta incontrare.
Peccato.
Sei tu che c'hai perso e si chiude una porta e si apre un portone per me. Tze.
Peccato per te.
Avevo il rossetto rosso e una gonna indaco.
Credo.
Forse solo una volta ci sono andata vicino.
Ero in macchina e qualcuno ha detto guarda-guarda-guarda-l’arcobaleno!
Ma son stata meno rapida a girarmi di quanto non sia stata la macchina a svoltare e cambiare corsia ed orizzonte.
Per cui nulla, nessun arcobaleno e nessun secchio col tesoro.
Ed oggi, che tutti pubblicate sui social e nelle piazze sta cazzo di foto dell’arcobaleno di ieri a Torino, sento riaffiorare in me questo antico dolore.
L’arcobaleno non esiste ragazzi.
Vero?
Ditemi la verità.
E’ un’illusione ottica.
E’ lo specchio delle pozzanghere.
E’ la pioggia che si riflette sui binari dei tram.
E’ il punto in cui si bacia la goccia con il fango.
L’arcobaleno è come l’amore. Non si spiega se non in sé stesso.
Esiste solo nei cuori di chi lo vive,diciamo, come negli occhi di chi lo guarda.
Per cui non è ancora il mio momento.
Diciamo.
Quanto lo incontrerò, riconoscerò il suo passo tra i passi di mille altri arcobaleni e bla-bla-bla ed i suoi colori saranno solo miei.
E finalmente potrò chiarirmi le idee sull’indaco.
Solo dimmi quanto ti fermi, arcobaleno?
Cioè che faccio. Riesco a scattarti una foto anch’io e vivere con la straziante malinconia del tuo ricordo?
Che faccio? T’aspetto?
O me ne frego?
Ma si, ma si. Me ne frego.
Faccio così.
Quando arrivi, arrivi.
E se ci becchiamo bene, sennò….
Sennò pazienza.
Viaggerò distratta su qualche altra auto e, se sarà destino, sarà.
Non ti rincorro, eh no, caro mio.
Figo tu, sette colori, tutti diversi.
Che poi, diciamolo, come outfit è un filo esagerato anche per Belen.
C’è una rappresentazione di te sulle finestre di qualsiasi scuola materna del globo.
Sei diventato più simbolo della pace tu che Gandhi.
Bo.
Non sarà che te la tiri un po’ troppo?
Quindi comunque ieri eri qui e non mi hai voluta incontrare.
Peccato.
Sei tu che c'hai perso e si chiude una porta e si apre un portone per me. Tze.
Peccato per te.
Avevo il rossetto rosso e una gonna indaco.
Credo.
venerdì 14 marzo 2014
Per eccesso di difetto
Arrotondando per eccesso, l'inverno è finito.
Arrotondando per eccesso, in fondo, meglio il gelo della grandine. Se cade sulla pelle il gelo, gela; la grandine (potrei dire grandina, ma vi stupirò)...livida, picchia, buca. E se non ci credete, ditelo alla Panda gialla che c'è sotto, in cortile.
Arrotondando per eccesso, l'inverno è finito.
Tira un po' di vento e c'è il sole.
Il primo, ma non ultimo e soprattutto visibile.
Si sente e sbrina.
Del nostro tempo rubato, delle tane in cui si siamo ficcati per chiedere rifugio, delle volte che non abbiam passeggiato in centro o sulla luna, il freddo se ne fotte.
E' marzo.
C'è chi tira le somme dell'IMU pagato a gennaio, chi tira pugni spaccando un tavolino, chi tira l'acqua e chi tira a campare.
L'inverno se ne fotte.
Lui è lungo ed è fatto di buio. Lui, l'inverno, di solare c'ha solo l'orario.
Ed i cappotti costano più dei costumi da bagno.
Ma l'inverno se ne fotte.
In fondo l'inverno, come i bambini, vuole solo una cosa: il Natale con la neve.
Arrotondando per eccesso, in fondo, meglio il gelo della grandine. Se cade sulla pelle il gelo, gela; la grandine (potrei dire grandina, ma vi stupirò)...livida, picchia, buca. E se non ci credete, ditelo alla Panda gialla che c'è sotto, in cortile.
Arrotondando per eccesso, l'inverno è finito.
Tira un po' di vento e c'è il sole.
Il primo, ma non ultimo e soprattutto visibile.
Si sente e sbrina.
Del nostro tempo rubato, delle tane in cui si siamo ficcati per chiedere rifugio, delle volte che non abbiam passeggiato in centro o sulla luna, il freddo se ne fotte.
E' marzo.
C'è chi tira le somme dell'IMU pagato a gennaio, chi tira pugni spaccando un tavolino, chi tira l'acqua e chi tira a campare.
L'inverno se ne fotte.
Lui è lungo ed è fatto di buio. Lui, l'inverno, di solare c'ha solo l'orario.
Ed i cappotti costano più dei costumi da bagno.
Ma l'inverno se ne fotte.
In fondo l'inverno, come i bambini, vuole solo una cosa: il Natale con la neve.
giovedì 13 marzo 2014
Come scontrini
Avrei dovuto scrivere una lettera per ogni cosa.
Che alle volte dovrebbero uscirti come se fossero degli scontrini dalla cassa della tua pancia, le lettere.
Ad esempio, quella volta che mi avevano detto che era morto Gesù.
Ed io piangevo, piangevo piangevo,. Avrei dovuto scrivere:
“Cavoli, gente! Ma perché non vi disperate un po’? Mi hanno detto che è morto un signore! Almeno un minimo di dolore. Cavoli! Per la morte ed anche per queste campane, che non sono campane, che non fatte di legno e che non so come si chiamino. Fanno paura anche a voi, vero?”.
La prima volta che ho avuto un libro tutto mio.
In realtà erano due libri: Pollyanna ed Il libro cuore. Era la fine della prima elementare e me li aveva regalati la mia maestra.
“Cara maestra, grazie. Pollyanna mi è piaciuto molto. Le pagine era lucide, colorate. Certo, lei un po’ sfortunata e con una zia un filino stronza. Cioè le mie zie non mi avrebbero mai trattata così. Credo. Poi per carità diventa buona, ok. Però a me le persone cattive proprio, in generale, non mi convincono. Il libro cuore? Mi ha lasciato due cose: il significato della parola “vedetta”, che non sapevo e poi ho chiesto a mamma se mi aiutava a cercarlo sul vocabolario e il vocabolario dice che è tipo una persona che si mette in un posto un po' nascosto e controlla, controlla controlla, sempre. Sta sempre con gli occhi aperti e non dorme mai e se c’è un pericolo la signora vedetta lo dice a tutti e tutti le credono.
Insomma dicevo, questa parola qui e poi Garrone. Simpatico. Ciao”
Il mio primo bacio, dalle suore.
Che tutti dicevano che mi si sarebbe spaccato il cuore in gola e le formiche si sarebbero trasformate in cigni ed il cielo si sarebbe tinto di tutti i colori della tavolozza di colori del pittore più grande di tutti i tempi e… Ed invece..
"Bo ciao, senti non so come iniziare. Senti guarda, di sicuro è colpa mia. Cioè sicuramente è così. Tu sei giusto ed io sono sbagliata. Sei carino, tutto montato con i pezzi giusti, ma io forse ho una malattia che non sapevo di avere: mi fa schifo la saliva.
O meglio, la tua, ecco. Mi ha dato fastidio. E non ho visto né i cigni, né i colori e manco le formiche, per cui mi sa che c’è qualcosa che non va. Che a me avevano raccontato che doveva funzionare diversamente. Per cui, ciao. E, vedrai, troverai quella giusta per te
(per inciso questa frase ha sempre portato bene perché i miei ex si son sposati tutti tutti).
La prima volta che ho cucinato.
Io tredici anni. Ilaria, lei, sette.
Io: la sorella maggiore. Ilaria, sempre lei, sempre sette.
Pentola- ce l’ho
Acqua- ce l’ho
Sale- ce l’ho
Pasta- pasta…pasta….cavoli è in alt….ok ok ce l’ho
- Che si mangia?
- Ili senti mamma ha già preparato il sugo che di sicuro è buonissimo maaaa... ti va se inventiamo una cosa tutta nostra?
- Siiiiiiiiiii
- Bene ecco a voi la pasta alla comm’esc!
- Alla?
- Alla comm’esc: comm’esc, esc
Ecco: “Cara Ilaria, lo so. Oggi la pasta era terribile. Troppo sale, troppo olio, troppo prosciutto, troppa provola che doveva amalgamare ed invece ha incollato tutto.. faceva schifo. Che nervi! E’ che questa cosa della sorella maggiore è una roba seria, sai? Ed io vorrei esserne capace. Perché poi tu un giorno vorrai , che ne so, vestirti come me, anche per una volta sola ma succederà. Il tuo primo rossetto sarà il mio rossetto. E mi sveglierai per un tuo incubo. E vorrai un mio consiglio per gli stivali da comprare a capodanno. Quando qualcuno ti ferità io dovrò dirtelo e tu forse mi odierai. Ma io dovrò dirtelo, capisci? E’ una cosa seria, capisci? Quando sbaglierò…e si mia cara…quando sbaglierò dieci, cento, mille paste, io ne soffrirò, perché avrò sbagliato davanti ad i tuoi occhi. Però Ilaria, vedi, comunque quel piatto, sbagliato o giusto, sarà sempre e solo tuo. Ci sarà sempre. Tu mi guarderai, ed io lo saprò già. Io ti guarderò, e tu lo sapevi già.
E quando forse un giorno andrò via di casa, no non adesso, adesso ho tredici anni, ma quando forse un giorno andrò via, bo, lascerò comunque sempre un pezzo di mio rossetto nel bagno. Ed un pezzo di cuore sotto il cuscino. Mettilo quando vuoi. Il rossetto e pure il cuore. Io sono quella che sono e sono l’unica cosa certa che ho. Ciao. Ps tvb”.
Avrei dovuto scrivere una lettera per ogni cosa e conservarle, come si conservano i biglietti dei concerti.
Adesso lo so. Adesso che ho nel mio cestino millemila carte appallottolate, con dentro mille vocali e consonanti appiccicate.
Stasera tutti a cena, distribuisco lettere ad uno ad uno.
Tranquilli: cucino io.
Che alle volte dovrebbero uscirti come se fossero degli scontrini dalla cassa della tua pancia, le lettere.
Ad esempio, quella volta che mi avevano detto che era morto Gesù.
Ed io piangevo, piangevo piangevo,. Avrei dovuto scrivere:
“Cavoli, gente! Ma perché non vi disperate un po’? Mi hanno detto che è morto un signore! Almeno un minimo di dolore. Cavoli! Per la morte ed anche per queste campane, che non sono campane, che non fatte di legno e che non so come si chiamino. Fanno paura anche a voi, vero?”.
La prima volta che ho avuto un libro tutto mio.
In realtà erano due libri: Pollyanna ed Il libro cuore. Era la fine della prima elementare e me li aveva regalati la mia maestra.
“Cara maestra, grazie. Pollyanna mi è piaciuto molto. Le pagine era lucide, colorate. Certo, lei un po’ sfortunata e con una zia un filino stronza. Cioè le mie zie non mi avrebbero mai trattata così. Credo. Poi per carità diventa buona, ok. Però a me le persone cattive proprio, in generale, non mi convincono. Il libro cuore? Mi ha lasciato due cose: il significato della parola “vedetta”, che non sapevo e poi ho chiesto a mamma se mi aiutava a cercarlo sul vocabolario e il vocabolario dice che è tipo una persona che si mette in un posto un po' nascosto e controlla, controlla controlla, sempre. Sta sempre con gli occhi aperti e non dorme mai e se c’è un pericolo la signora vedetta lo dice a tutti e tutti le credono.
Insomma dicevo, questa parola qui e poi Garrone. Simpatico. Ciao”
Il mio primo bacio, dalle suore.
Che tutti dicevano che mi si sarebbe spaccato il cuore in gola e le formiche si sarebbero trasformate in cigni ed il cielo si sarebbe tinto di tutti i colori della tavolozza di colori del pittore più grande di tutti i tempi e… Ed invece..
"Bo ciao, senti non so come iniziare. Senti guarda, di sicuro è colpa mia. Cioè sicuramente è così. Tu sei giusto ed io sono sbagliata. Sei carino, tutto montato con i pezzi giusti, ma io forse ho una malattia che non sapevo di avere: mi fa schifo la saliva.
O meglio, la tua, ecco. Mi ha dato fastidio. E non ho visto né i cigni, né i colori e manco le formiche, per cui mi sa che c’è qualcosa che non va. Che a me avevano raccontato che doveva funzionare diversamente. Per cui, ciao. E, vedrai, troverai quella giusta per te
(per inciso questa frase ha sempre portato bene perché i miei ex si son sposati tutti tutti).
La prima volta che ho cucinato.
Io tredici anni. Ilaria, lei, sette.
Io: la sorella maggiore. Ilaria, sempre lei, sempre sette.
Pentola- ce l’ho
Acqua- ce l’ho
Sale- ce l’ho
Pasta- pasta…pasta….cavoli è in alt….ok ok ce l’ho
- Che si mangia?
- Ili senti mamma ha già preparato il sugo che di sicuro è buonissimo maaaa... ti va se inventiamo una cosa tutta nostra?
- Siiiiiiiiiii
- Bene ecco a voi la pasta alla comm’esc!
- Alla?
- Alla comm’esc: comm’esc, esc
Ecco: “Cara Ilaria, lo so. Oggi la pasta era terribile. Troppo sale, troppo olio, troppo prosciutto, troppa provola che doveva amalgamare ed invece ha incollato tutto.. faceva schifo. Che nervi! E’ che questa cosa della sorella maggiore è una roba seria, sai? Ed io vorrei esserne capace. Perché poi tu un giorno vorrai , che ne so, vestirti come me, anche per una volta sola ma succederà. Il tuo primo rossetto sarà il mio rossetto. E mi sveglierai per un tuo incubo. E vorrai un mio consiglio per gli stivali da comprare a capodanno. Quando qualcuno ti ferità io dovrò dirtelo e tu forse mi odierai. Ma io dovrò dirtelo, capisci? E’ una cosa seria, capisci? Quando sbaglierò…e si mia cara…quando sbaglierò dieci, cento, mille paste, io ne soffrirò, perché avrò sbagliato davanti ad i tuoi occhi. Però Ilaria, vedi, comunque quel piatto, sbagliato o giusto, sarà sempre e solo tuo. Ci sarà sempre. Tu mi guarderai, ed io lo saprò già. Io ti guarderò, e tu lo sapevi già.
E quando forse un giorno andrò via di casa, no non adesso, adesso ho tredici anni, ma quando forse un giorno andrò via, bo, lascerò comunque sempre un pezzo di mio rossetto nel bagno. Ed un pezzo di cuore sotto il cuscino. Mettilo quando vuoi. Il rossetto e pure il cuore. Io sono quella che sono e sono l’unica cosa certa che ho. Ciao. Ps tvb”.
Avrei dovuto scrivere una lettera per ogni cosa e conservarle, come si conservano i biglietti dei concerti.
Adesso lo so. Adesso che ho nel mio cestino millemila carte appallottolate, con dentro mille vocali e consonanti appiccicate.
Stasera tutti a cena, distribuisco lettere ad uno ad uno.
Tranquilli: cucino io.
mercoledì 12 marzo 2014
Signor Sì
E’ un pensiero da poco che riemerge dai cassetti del tempo. Ora che il si ed il no dovrebbero avere dei margini chiari, precisi e delineati. Ora che ho, perché dicono così, gli strumenti per tutto.
Ero bambina ma piccola per davvero.
Avevo delle sopracciglia che Beppe Bergomi in confronto era andato da un fashion stylist, portavo i fuseaux (che adesso si chiamerebbero leggins) con i fiori stampati giganti, le fascette di lana per evitare l’otite (in realtà era precauzionale perché io non è che soffrissi di otite, vabbè), pensavo che mia madre fosse altissima perché la vedevo dal basso, e credevo un sacco a tutto e in tutto.
Credevo un sacco persino in me.
E poi credevo che ci fosse un signore antipatico, lavoratore indefesso, che non aveva a casa una bambina come me (o come te) che puntualmente la sera chiamava a casa e voleva parlare con il mio papà.
Il mio papà.
E se papà diceva Signor Si , era Lui e papà usciva e tornava a lavorare. Scappava dal Signor Si.
Però non credo volesse più bene a lui che a me.
Nella lista del “non voglio” avevo:
- Non voglio tagliare i capelli
- Non voglio mangiare i broccoli
- Non voglio mai lavorare con il Signor Si
E facevo un sacco di disegni su questo Signor Si, ma, soprattutto, speravo di non incontrarlo mai.
Che poi magari di notte faceva uscire anche me, ed io c’avevo paura.
Signor Si, signore.
E non aveva pietà.
Sinniorsì, si-no-si, Signor Si
Certo, son cambiate molte cose.
Ho tagliato, fatto ricrescere e ritagliato i capelli mille volte.
Adoro i broccoli, anche come contorno.
Poi fanno bene a tutto: colesterolo, anti tumorali, riempitivi, sostitutivi, palliativi.
Sono fichi i broccoli.
E bo.
Si, il signor si, giusto.
Bo, credo di averlo incontrato
Si.
Adesso ha il tablet .
Magari non fa più le telefonate, ma le call
Però si, l’ho incrociato. Non somigliava per nulla ai miei disegni.
Peccato perché disegnavo bene anche con i colori a cera.
Non aveva il cappotto nero e la barba lunga.
Era vestito bene, col profumo e la barba sempre fatta al mattino.
Viaggiava con un trolley e dentro di sicuro aveva un piccolo manuale su “come si fa a diventare così perfetti in 10 mosse”.
Ne fanno pochi così.
Cioè non tutti poi diventano il Signor Si.
Alcuni si fermano al Signor. Altri inciampano addirittura prima.
Tra una scala mobile e l’altra.
Che se sbagli direzione/verso, le scale mobili sono un’arma di distruzione di massa.
Ma se lo becchi, tranquillo, lo ricosci.
Ah e se lo becchi, fai quel che puoi.
Copriti bene se è notte e scudati bene se è giorno
A, per la cronaca, mia mamma è ancora altissima, anche vista dall’alto.
Ero bambina ma piccola per davvero.
Avevo delle sopracciglia che Beppe Bergomi in confronto era andato da un fashion stylist, portavo i fuseaux (che adesso si chiamerebbero leggins) con i fiori stampati giganti, le fascette di lana per evitare l’otite (in realtà era precauzionale perché io non è che soffrissi di otite, vabbè), pensavo che mia madre fosse altissima perché la vedevo dal basso, e credevo un sacco a tutto e in tutto.
Credevo un sacco persino in me.
E poi credevo che ci fosse un signore antipatico, lavoratore indefesso, che non aveva a casa una bambina come me (o come te) che puntualmente la sera chiamava a casa e voleva parlare con il mio papà.
Il mio papà.
E se papà diceva Signor Si , era Lui e papà usciva e tornava a lavorare. Scappava dal Signor Si.
Però non credo volesse più bene a lui che a me.
Nella lista del “non voglio” avevo:
- Non voglio tagliare i capelli
- Non voglio mangiare i broccoli
- Non voglio mai lavorare con il Signor Si
E facevo un sacco di disegni su questo Signor Si, ma, soprattutto, speravo di non incontrarlo mai.
Che poi magari di notte faceva uscire anche me, ed io c’avevo paura.
Signor Si, signore.
E non aveva pietà.
Sinniorsì, si-no-si, Signor Si
Certo, son cambiate molte cose.
Ho tagliato, fatto ricrescere e ritagliato i capelli mille volte.
Adoro i broccoli, anche come contorno.
Poi fanno bene a tutto: colesterolo, anti tumorali, riempitivi, sostitutivi, palliativi.
Sono fichi i broccoli.
E bo.
Si, il signor si, giusto.
Bo, credo di averlo incontrato
Si.
Adesso ha il tablet .
Magari non fa più le telefonate, ma le call
Però si, l’ho incrociato. Non somigliava per nulla ai miei disegni.
Peccato perché disegnavo bene anche con i colori a cera.
Non aveva il cappotto nero e la barba lunga.
Era vestito bene, col profumo e la barba sempre fatta al mattino.
Viaggiava con un trolley e dentro di sicuro aveva un piccolo manuale su “come si fa a diventare così perfetti in 10 mosse”.
Ne fanno pochi così.
Cioè non tutti poi diventano il Signor Si.
Alcuni si fermano al Signor. Altri inciampano addirittura prima.
Tra una scala mobile e l’altra.
Che se sbagli direzione/verso, le scale mobili sono un’arma di distruzione di massa.
Ma se lo becchi, tranquillo, lo ricosci.
Ah e se lo becchi, fai quel che puoi.
Copriti bene se è notte e scudati bene se è giorno
A, per la cronaca, mia mamma è ancora altissima, anche vista dall’alto.
mercoledì 12 febbraio 2014
Datemi una i
Insieme.
I miei anni ed i tuoi. Dapprima
isolati, poi
incrociati.
Incontrati,
incollati.Stupefatti per l'ardore della scoperta,
immobilizzati dalla paura del principio.
Inizio. Un balcone, degli amici e foglie di menta
intorno ad un tavolo fatto di gambe e sudore estivo.
Io dovevo partire. Tu volevi restare.
Il tempo ha poi scandito le sue voglie, rubandole all'abitudine,
inchiodandoci gli occhi e slegandoci le mani.
Io che cammino tra sole e polvere, tu che salti gli ostacoli.
Inciampiamo così, in momenti come questo
in cui vivo tutto
in un boccone d'aria. Non adesso, non domani ma forse
Invecchieremo. Si, di sicuro
invecchieremo, così,
insieme.
I miei anni ed i tuoi. Dapprima
isolati, poi
incrociati.
Incontrati,
incollati.Stupefatti per l'ardore della scoperta,
immobilizzati dalla paura del principio.
Inizio. Un balcone, degli amici e foglie di menta
intorno ad un tavolo fatto di gambe e sudore estivo.
Io dovevo partire. Tu volevi restare.
Il tempo ha poi scandito le sue voglie, rubandole all'abitudine,
inchiodandoci gli occhi e slegandoci le mani.
Io che cammino tra sole e polvere, tu che salti gli ostacoli.
Inciampiamo così, in momenti come questo
in cui vivo tutto
in un boccone d'aria. Non adesso, non domani ma forse
Invecchieremo. Si, di sicuro
invecchieremo, così,
insieme.
venerdì 31 gennaio 2014
Cel'ho-cel'ho-mimanca
Dionne Warwick, Stevie Wonder, Elton John, Gladys Knight cantano That's what friends are for.
Mi piace un sacco. Con fuori il buio ed immaginando cumuli di neve.
“A me le parole piacciono. Amo le frasi lunghe, i sospiri che non finiscono più. Mi piace quando, a volte, le parole nascondono quello che vogliono dire; o lo dicono in un modo diverso” .
Dicono che siano le nostre stesse mani ad annodare, tessere e sciogliere i fili della sorte
Che l'essere felici e l'esser tristi siano scelte che intraprendiamo più o meno consapevolmente.
Dicono un sacco di cose effettivamente.
C’è gente che quando dice, lo dice così bene e con lo sguardo così convinto, che sembra di saperlo sul serio.
A volte basta il gusto del gelato dopo un raffreddore che ti aveva impedito di sentire qualsiasi aroma a renderti felice.
Una pizza d’asporto verso casa di lui con le mani fredde.
Una lettera della tua amica fatta di cuori fucsia, stelline e tvb, risalente a prima che ti tradisse, prima che si truccasse così pesantemente volto ed anima, come fosse la peggiore delle puttane.
Anzi, chiedo venia alle puttane: loro vendono corpo e prestazione, non mettono all’asta amicizie.
E c’è una donna, che ho conosciuto, che tiene la sua felicità in una vecchia scarpa nascosta sul fondo dell'armadio: un assegno da 18.547.301 euro e 28 centesimi.
Durante l'estrazione del lotto, quella voce ha letto i numeri sui quali lei aveva puntato e che aveva scelto a caso tra date da ricordare, numeri di telefono affiorati d'un tratto e cifre scarabocchiate su una pagina consumata.
E' lei, proprio lei, ad aver vinto quella somma da capogiro. Adesso è la donna più ricca del paesino in cui vive e presto tutti la vorranno.
Tutti la guarderanno, la cercheranno, le offriranno dei caffè e dei sorrisi.
Dovrebbe essere felice, invasata da una voglia matta di darsi allo shopping più inutile e costoso, ma ha imparato che se qualcosa fa paura quella cosa non può essere la felicità.
Cioè non che la felicità, a volte, non ti blocchi le gambe e paralizzi il fiato.
Però non è paura quella.
E’ un po’ come la differenza che intercorre tra il sudore dopo una corsa ed il sudore dopo una colica da indigestione.
Così, anziché gridare ai quattro venti la sua fortuna, la nasconde accuratamente nell'armadio, lontana dagli occhi, lontana dal cuore.
Scrive liste infinite delle cose che non ha ma che vorrebbe avere, si nutre dei sogni che ha sempre sognato.
Scrive e riscrive cose grosse e di valore ma è come se in fondo, nel profondo, dove ristagnano le verità senza ammuffire, non volesse più di quel che ha.
Un papà che ogni sei minuti perde la memoria; una mamma morta troppo presto; due figli grandi e lontani; un blog e una merceria fatti entrambi di nastri e merletti; un marito rozzo e schietto, che la porta raramente in vacanza, che non le ricorda mai quanto è bella, ma che tuttavia c'è.
Sulla vetta e nell'abisso, nell'allegria e nel lutto. Lui è rimasto. Con le sue mani grosse e ruvide.Le cose che non ho…
Odio i fiori perché appassiscono, perché sono facilmente sostituibili: morti quelli li rimpiazzi. Son peggio dei papi, i fiori.
Non hanno radici e, se le hanno, se le son scordate.Le cose che non ho…
Non ho occhi senza lacrime e alle lacrime spesso non rinuncio. Quella è la mia acqua, che bagna.
Non hoNoh ho scatole in cui depositare le ansie, i ricordi ed i cappotti sotto la naftalina.
Non ho niente di cui mi debba vergognare, se non quando capita di avere gambe non perfettamente depilate al 15 di agosto, ma, per questo, c’ho Maria (grazie Maria).
Non ho conigli nel cilindro, anzi non ho né conigli, né cilindri.Un giorno dirò perché ho sempre odiato Alice e il suo cazzo di paese delle meraviglie.
Non ho assi nella manica.
Non ho baguette sotto le ascelle.
Non ho pifferai magici con cui attirare l’attenzione e non ho la memoria di super Vichy per cui, tranquillo, il dolore ogni tanto lo dimentico (bugia, ho una memoria incredibile. Chi mi circonda lo sa).
Non ho lo smalto sulle unghie e non ho neanche un cappello.
Vedi, io sono qui.
Sono tutto quello che ho e sono anche tutto quello che mi manca.
Leggetelo, attaccati al termosifone, con una tisana al finocchio (ops, colpa di real time).
martedì 14 gennaio 2014
Quelli che...fino alla fine
Ci son delle cose che finiscono anche se tu la fine non la vedi.
Cioè non tutto è come il vasetto di yogurt che raschi raschi raschi fino in fondo, facendo quel rumore fastidioso, leccando magari anche i bordi fin quando, oggettivamente, non se ne può più, non ce n’è più.
Ci son delle cose che finiscono e ti fanno male come se ti si spezzasse un’unghia nello stomaco.
Mentre la ascoltavo mi si sono spezzate tutte le unghie nello stomaco che ricordavo di avere.
Ricordo quell’unghia lì che l’avevo mangiata nel 1994 e boh. Mi si è spezzata stasera.
Tanto comunque su Focus ho letto che le unghie non le digerisci mai.
Più facile digerire i fagioli al purgatorio di mia nonna (se non sai cosa siano i fagioli al purgatorio non ti basterà Google, ti manca proprio un pezzo).
E mentre parlava mi è ritornata in mente una delle mie immagini ricorrenti, di quelle che mi ricreo quando penso a delle cose tremendamente grosse.
Quelle immagini dei post-concerti, dei post-conferenze, dei post-eventi, dei post-cose insomma.
Di quando se ne sono andati tutti e tu puoi essere l’ultimo che va via, quello che spegne tutto e si porta in tasca il rumore e negli occhi la luce.
Io son quella che aspetta.
Che attende sempre un po’.
Quella che al cinema non esce alla fine dell'ultima scena, ma che si legge i titoli di coda, anche solo per conoscere il nome del parrucchiere che ha tinto di biondo e cotonato le piume di Jennifer Lawrence.
Quella che ai concerti di piazza, dopo un po’, ripassa, si fa il secondo giro e si gode lo smontaggio.
E a volte è tutto così.
Cioè che solo quando la musica finisce capisci il palco che c’era sotto.
E com’era stato montato.
Perché comunque il palco deve reggere tutto.
Deve reggere la tua band, e le chitarre, e la batteria, e le luci, e le travi con le americane per l’effetto giusto. Deve reggere te, che ci saltelli sopra vestito in finta pelle che stringiti pure ancora tra nuvole e lenzuola e che certe notti vai da Mario, altre da Gino, che però se sotto non è tutto tra terra, legno e ferro e con l’incastro perfetto, non vai da nessuna parte.
E non tutti i palchi fanno innalzare. Non da tutti c’è la visuale piena di quello che accade. Non da tutti riesce a scorgere il cartellone della ragazza dell’ultima fila.
Alcuni son bassi, altri piazzati nell’angolo sbagliato della strada.
I peggiori e quelli che mi fanno più paura son quelli che riesci a smontare in fretta.
Se i brutti palchi o i dolorosi pensieri potessero trasformarsi in sudore, basterebbe una doccia per mandarli via.
Invece no.
Con i brutti palchi non so.
Coi dolorosi pensieri no di certo.
Solo mentre smonti capisci quanta ambizione c’è nella costruzione delle cose.
C’è tutto il tuo essere, il tuo non essere , il sapere e quello che impari facendo.
E costruire poi genera un dono, quello del ricordo, della memoria.
Un po’ come i materassi di nuova generazione che si chiamano Memory, che prendono la forma del tuo corpo, che così puoi sia addormentarti velocemente sia capire quanto siano intense le corna che lui ti ha messo, se è stata solo ‘na sveltina per intenderci o se l’altra si è pure fermata a dormire.
Mentre costruisci ti ricordi se l’hai già fatto o se quella volta lì, per esempio, hai sbagliato. Ed allora provi a non sbagliare più.
A imparare di nuovo come si fa.
Come si fa a non sbagliare e a costruirne un pezzo in più.
Ad essere lì a cercare una soluzione quando sarebbe più facile buttarlo tutto e rifarlo da zero.
Ho comprato mille giornaletti di enigmistica nella mia vita ed ho capito che stavo per crescere quando ho smesso di lasciare a metà quelli che sbagliavo, preferendo iniziare un Bartezzaghi nuovo. Ho capito che la penna la puoi ripassare sopra e,magari, ti esce la parola corretta.
Magari no.
Ma riprovarci non mi fa più schifo ecco.
Sbagliare non mi fa più schifo.
Accettare l’errore dell’altro neppure.
Me la vivo tutta. Non smetto adesso. Non adesso. Non smetto di lottare adesso. Non adesso. Non smetto di amare adesso.
Soffro di più così? Pazienza
“Che la morte mi trovi viva, insomma, porca puttana”.
P.S.
Ah alla fine di questo non vi suggerisco nessuno libro.
Però voi fatelo. Leggete. O pensate.
Adesso
Cioè non tutto è come il vasetto di yogurt che raschi raschi raschi fino in fondo, facendo quel rumore fastidioso, leccando magari anche i bordi fin quando, oggettivamente, non se ne può più, non ce n’è più.
Ci son delle cose che finiscono e ti fanno male come se ti si spezzasse un’unghia nello stomaco.
Mentre la ascoltavo mi si sono spezzate tutte le unghie nello stomaco che ricordavo di avere.
Ricordo quell’unghia lì che l’avevo mangiata nel 1994 e boh. Mi si è spezzata stasera.
Tanto comunque su Focus ho letto che le unghie non le digerisci mai.
Più facile digerire i fagioli al purgatorio di mia nonna (se non sai cosa siano i fagioli al purgatorio non ti basterà Google, ti manca proprio un pezzo).
E mentre parlava mi è ritornata in mente una delle mie immagini ricorrenti, di quelle che mi ricreo quando penso a delle cose tremendamente grosse.
Quelle immagini dei post-concerti, dei post-conferenze, dei post-eventi, dei post-cose insomma.
Di quando se ne sono andati tutti e tu puoi essere l’ultimo che va via, quello che spegne tutto e si porta in tasca il rumore e negli occhi la luce.
Io son quella che aspetta.
Che attende sempre un po’.
Quella che al cinema non esce alla fine dell'ultima scena, ma che si legge i titoli di coda, anche solo per conoscere il nome del parrucchiere che ha tinto di biondo e cotonato le piume di Jennifer Lawrence.
Quella che ai concerti di piazza, dopo un po’, ripassa, si fa il secondo giro e si gode lo smontaggio.
E a volte è tutto così.
Cioè che solo quando la musica finisce capisci il palco che c’era sotto.
E com’era stato montato.
Perché comunque il palco deve reggere tutto.
Deve reggere la tua band, e le chitarre, e la batteria, e le luci, e le travi con le americane per l’effetto giusto. Deve reggere te, che ci saltelli sopra vestito in finta pelle che stringiti pure ancora tra nuvole e lenzuola e che certe notti vai da Mario, altre da Gino, che però se sotto non è tutto tra terra, legno e ferro e con l’incastro perfetto, non vai da nessuna parte.
E non tutti i palchi fanno innalzare. Non da tutti c’è la visuale piena di quello che accade. Non da tutti riesce a scorgere il cartellone della ragazza dell’ultima fila.
Alcuni son bassi, altri piazzati nell’angolo sbagliato della strada.
I peggiori e quelli che mi fanno più paura son quelli che riesci a smontare in fretta.
Se i brutti palchi o i dolorosi pensieri potessero trasformarsi in sudore, basterebbe una doccia per mandarli via.
Invece no.
Con i brutti palchi non so.
Coi dolorosi pensieri no di certo.
Solo mentre smonti capisci quanta ambizione c’è nella costruzione delle cose.
C’è tutto il tuo essere, il tuo non essere , il sapere e quello che impari facendo.
E costruire poi genera un dono, quello del ricordo, della memoria.
Un po’ come i materassi di nuova generazione che si chiamano Memory, che prendono la forma del tuo corpo, che così puoi sia addormentarti velocemente sia capire quanto siano intense le corna che lui ti ha messo, se è stata solo ‘na sveltina per intenderci o se l’altra si è pure fermata a dormire.
Mentre costruisci ti ricordi se l’hai già fatto o se quella volta lì, per esempio, hai sbagliato. Ed allora provi a non sbagliare più.
A imparare di nuovo come si fa.
Come si fa a non sbagliare e a costruirne un pezzo in più.
Ad essere lì a cercare una soluzione quando sarebbe più facile buttarlo tutto e rifarlo da zero.
Ho comprato mille giornaletti di enigmistica nella mia vita ed ho capito che stavo per crescere quando ho smesso di lasciare a metà quelli che sbagliavo, preferendo iniziare un Bartezzaghi nuovo. Ho capito che la penna la puoi ripassare sopra e,magari, ti esce la parola corretta.
Magari no.
Ma riprovarci non mi fa più schifo ecco.
Sbagliare non mi fa più schifo.
Accettare l’errore dell’altro neppure.
Me la vivo tutta. Non smetto adesso. Non adesso. Non smetto di lottare adesso. Non adesso. Non smetto di amare adesso.
Soffro di più così? Pazienza
“Che la morte mi trovi viva, insomma, porca puttana”.
P.S.
Ah alla fine di questo non vi suggerisco nessuno libro.
Però voi fatelo. Leggete. O pensate.
Adesso
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