martedì 29 ottobre 2013

Su una pietra che rotola non si forma la muffa

+1
E non solo come età.
Cioè non solo nel senso che tra due mesi i miei 30 subiranno un +1 e la cosa mi porta, inevitabilmente, a riflettere.
Anche in quel senso lì, ma non solo.
“Ciao sono Natalia. Si lo so è un nome strano ma non sono spagnola, No no neppure russa. Solo figlia di una madre che ha rielaborato in modo fantasioso il nome di mia nonna che si chiama Natalina ma per le amiche Lina ma a te ovviamente non importa nulla. Quindi aspetta. Dicevo. Sono calabrese, ho studiato a Pisa ora vivo a Torino. Cerco di non perdere mai l’orientamento ma ti rendi conto anche tu che alle volte, è un po’ un casino.  Lavoro qui, respiro qui. Scrivo da sempre e sempre macchiandomi di nero l’anulare destro.
Tu invece sei quello col master ed profilo importante su Linkedin. Ho visto.
Boh si certo, accetto il contatto, che è accompagnato da un messaggio così cortese che come potrei dire di no”?
No?
+1.
Non ci conosciamo, forse non ci conosceremo mai ma…
Fai +1 like wow sul mio profilo, su un mio status, sul mio aggiornamento di lavoro, sul mio tweet, su una foto, sulle zucchine gratinate che preparo, uno starnuto, uno sputo di segnale.
In realtà magari non te ne importa nulla. Ti è solo scappata la mano su quel pulsante lì. O hai voglia di testimoniare che in quella frazione di secondo, contestualmente, calpestavamo i giardini dell’etere.
Ciao sono Natalia e, come spero tu possa ben valutare, ho una foto professionale per il curriculum professionale, estemporanea ed amichevole per gli amici facebook e…
E mi sento una schizofrenica.
Che scrive dei bigliettini in bianco e nero da inserire nelle bottiglie di vetro che poi lancia in un mare fatto di gente col surf, di onde, di eventi, di giochi (a, per inciso, per favore non gioco ai giochi delle case, dei crimini, dei vermi grossi che mangiano vermi piccoli. Non ne sono capace e non ne ho voglia).
Ed io il surf non ce l’ho. Manco il corso di vela ho fatto.
Te lo vorrei dire ma non so come scriverlo bene in inglese, in tedesco ed in latino, per farti vedere quante cose so fare.
Ho quasi 31 anni e da bambina pensavo che a quest'età avrei già avuto 4 figli da portare all’asilo, un marito, forse un cane, una casa e dei cappotti marroni, una veranda e un divano rosso.
Viviamo per realizzare dei sogni che, se ti va bene e ne realizzi uno o uno e mezzo, comunque, te ne rimangono fuori a quintali.
Abitiamo centri città che non ci apparteranno mai fino in fondo.
E noi non apparterremo mai ad esse.
Progettiamo diversi futuri possibili, per non restare intrappolati in dei piani A e B e C.
Scegliamo la 1 la 2 o la 3 in base al tempo,sperando che la felicità non sia rimasta nella 4.
O bloccata per sciopero di Poste Italiane.
Che sto iniziando a creder che la felicità sia come la fede, un dogma.
Che i dogmi, alla fine, sono un continuo, eterno, bilanciato e sapiente giochino di bastone/carota, bastone/carota, bastone/carota.
La vita con te e tu con la vita.
La madre della mia migliore amica quest’estate mi ha detto “voi siete troppo sensibili. Ogni tanto sarebbe meglio nascere pietra”.
Nascere pietra....
Dura. Piazzata lì….
Poi, ho pensato: io pietra?
Io pietra avrei, nell'ordine:

  • chiesto a Jovanotti perché mai si riempiva le tasche di me e dei miei simili;
  •  insultato coloro che mi scagliavano contro Maddalena, bastardi;
  • chiesto spiegazioni al tipo che mi lanciava per poi nascondere la mano;
  • preteso un “grazie” o quantomeno un piccolo gesto di riconoscenza da parte di tutti gli ombrelloni che d’estate aiuto, dando una vigorosa mano contro il vento. Io che rischio ogni volta il soffocamento dalla cordicella che mi attaglia e che mi turo il naso in apnea sotto la sabbia.


Troppo complicata come vita anche quella da pietra, ecco.
Sarei scivolata dalla montagna, mi sarei staccata dalla scoglio, avrei fatto mille rotoli o salti per evitare la muffa sopra di me.

Sarei stata una pietra dentro un sogno.
Con questo libro in mano.
O dentro una bottiglia.


Le mie storie sono scritte da un uomo che sogna un mondo migliore, più giusto, più pulito e generoso. Le mie storie sono scritte da un cileno che sogna di veder realizzato in questo paese il sogno più bello, quello di sederci tutti con fiducia alla stessa tavola, senza la vergogna di sapere che gli assassini di coloro di cui sentiamo la mancanza non ricevono il giusto castigo.




giovedì 24 ottobre 2013

Bisogna aver sempre l'aria utile quando non sei ricco

Lola, dopo tutto, non faceva che divagare su felicità e ottimismo, come tutte le persone che sono dalla parte giusta della vita, quella dei privilegi, della salute, della sicurezza e che hanno da vivere per un bel po'.

Ho uno scaffale tutto francese, io che non sono mai stata a Parigi.
Quindi posseggo ancora quel privilegio dell’immaginazione.
E, qui dentro, ho tutta la profetica lucidità del delirio che l’immaginazione può portare.
Uno sguardo che nulla perdona a sé e agli altri, che ha il coraggio di affrontare la notte dell’uomo così com’è.
L’anarchico Céline, che amava definirsi un cronista, aveva vissuto le esperienze più drammatiche: gli orrori della Grande Guerra e le trincee delle Fiandre, la vita godereccia delle retrovie e l’ascesa di una piccola borghesia cinica e faccendiera, le durezze dell’Africa coloniale, la New York della «folla solitaria», le catene di montaggio della Ford a Detroit, la Parigi delle periferie più desolate dove lui faceva il medico dei poveri, a contatto con una miseria morale prima ancora che materiale. Totalmente nuovo, nel panorama francese ed europeo, è stato poi il suo modo insieme realistico e visionario, sofisticato e plebeo con cui Céline ha sputo trasfigurare questa materia incandescente. Per lui, in principio, è l’emozione, il sentimento della vita: di qui l’invenzione di un linguaggio che ha tutta l’immediatezza del «parlato» quotidiano, capace di dar voce, tra sarcasmi e pietà, alla tragicommedia di un secolo.
Questo libro sembra riassumere in sé la disperazione del Novecento: è in realtà un’opera potentemente comica, esilarante, in cui lo spettacolo dell’abiezione scatena un riso liberatorio, un divertimento grottesco più forte dell’incubo.

È forse questo che si cerca nella vita, nient'altro che questo, la più gran pena possibile per diventare se stessi, prima di morire.

Le mie parole si fermano qui.

Questa sera che, lo so, che gli Dei non dovrebbero trasformare in realtà i sogni.
Ma..Magari non tutti.


Ma qualcuno.


giovedì 17 ottobre 2013

Etimologia semiotica illogica sentimentale

E’ notte fonda in questa libreria che non chiude mai.
E forse è la notte che mi fa volare tra le mani queste parole.
Ma non è del libro che parlo.
Non adesso almeno.
In questo momento, ad esempio, ho capito che quando amo troppo, non riesco a scriverne.
Non riesco a trovare i vocaboli giusti, i modi corretti e sufficientemente pieni , colmi, devastanti per parlare dell’amore pieno colmo e devastante.
Lo sospettavo, ma adesso l’ho proprio capito.
Ma stanotte ho voglia di parlare di lei.
Per cui perdonatemi se non saranno termini sagaci, ficcanti, inebriati. Li cercherò man mano, in questo viaggio.
Ne parlo come viene.
Innanzitutto chiariamo: io amo una donna.
Cioè se penso all’origine ed al senso vero non filtrato del concetto e della manifestazione di amore, penso assolutamente e senza titubanza alcuna a lei.
Cioè stanotte e tutte le notti ed i giorni che ho vissuto sino ad ora, l’amore ha i suoi occhi.
Verde diamante.
Ma non verde come i miei o come i tuoi.
Verde solo come i suoi.
 Ha il suo profumo, che non è mai troppo dolce o troppo forte.
Non sa di sandalo o violetta o buganvillee o di cacao amaro o di terra del deserto racchiusa in un cofanetto tutto a 19,99 €.
E’ il suo odore unico ed irripetibile che sa solo di lei e che non è mai stato, non è, e non sarà mai di nessun altro.
Mi manca.
Ma è una cosa così banale che mi fa schifo quasi imprimerla.
Mi manca perché quando una cosa ti riempie è inscindibile da te.
Per cui non voglio che questa pagina parli della banalità della mancanza, ma voglio che sia piena della presenza.
Lei è una si sveglia sempre prima di tutti. Si leva prima dell’alba stessa.
O forse non dorme mai.
Una volta da adolescente ricordo di aver letto una frase su un muro che faceva circa il tuo destino si sveglia sempre mezz’ora prima di te.
E ricordo di averle detto “ma allora tu sei pure più forte del destino?”.
Credo che lei abbia sempre avuto  il sospetto che io fossi non  proprio normale.
Ma non me l’hai mai fatto pesare.
Perché io la amo, ma lei di più.
Mi ama quando sbaglio. Quando mi vergogno.
Quando mi nascondo lei mi trova.
Quando stravolgo la mia vita, lei mi regala una raffica di vento.
Ed una mantellina fatta all’uncinetto, 'chè soffro un po’ di tonsille.
E lei lo sa.
Lei che ha asciugato le mie lacrime ma soprattutto ha cercato lì dentro dei perché.
Mi ha regalato degli stivali bellissimi, una collana con dei corallini rossi e la libertà di trovare da sola le risposte.
Lei sa lavare i piatti, accendere il fuoco, risolvere un problema con i triangoli di Tartaglia, preparare la ciambella e  seguire Cento Vetrine tutto insieme.
E la sera sul divano non si appisola.
Lei pensa.
E secondo me è vero.
Mi innamoro ogni giorno di più di lei e dei difetti.
Che sono suoi ma soprattutto miei.
Amare i difetti è un privilegio.
Mamma.
E’ ottobre.
Piove un po’, ma non fa ancora freddo.
Hai preparato già il pranzo per domani?
Che fai?
Hai surgelato un po' di funghi per quando torno a Natale?
Ah, ti piace questa?

poi ti volgi e vedi ancora i tuoi figli,
poi ti volti e non sai ancora dire
e taci meravigliata
e allora diventi grande come la terra
e innalzi il tuo canto d'amore.

Lo farei adesso, ma facciamo che ti chiamo domani, va.






martedì 15 ottobre 2013

Il cuore ha più stanze di un casino


Non morire senza aver provato la meraviglia di scopare con amore.

Fa freddo.
Di nuovo.
Adoro quando i mesi smettono di mentire e diventano giusti.
Io voglio mangiare le fragole quando è tempo di fragole (adesso ogni volta che nomino le fragole ho paura di dover chiedere il permesso a Vasco Rossi, ma vabbè-eee) ed i mandarini quando è tempo di mandarini.
Oggi ho preso delle mele, ad esempio.
Viaggio sempre in tram, ormai lo sapete, ma oggi mi è sembrato davvero fosse lui.
Sul 4.
Di vederlo, intendo.
Vecchio, eccentrico, intellettuale squattrinato, appassionato di musica classica, giornalista solitario e non particolarmente brillante, da sempre ostile a ogni legame.
Era sul 4 e non sapeva se scendere o meno.
All’alba del suo novantesimo compleanno decide di concedersi un regalo particolare: una notte d’amore con una ragazza vergine.
Abituato all’amore carnale, prende il telefono e chiama Rosa Cabarcas e il suo bordello.
Scordatevi i grigi, i rossi ,  i neri e le sfumature.
Pensate a lei.
La ragazza prescelta.
Quella che per concedersi, razionalmente pronta al sacrificio, ha dovuto esser sedata dal bromuro e dalla valeriana .
Lei diventerà per lui il suo unico, autentico amore di una vita, cominciato e vissuto a novant’anni.
Forse in una notte, o comunque il tempo che ci han messo i miei occhi a imprimersi sul libro.
Non so bene come si scopra un amore.
In realtà non ho ben capito se spetta davvero a noi scoprirlo.
Ho capito però che si può iniziare ad amare anche quando per gli altri è tempo di morire.
Perché forse non si muore quando si deve, ma quando si vuole.
Lui è quello dei Cent’anni di solitudine.
Ed io adesso, dividerei questa mela, fresca, comprata oggi.

Ed una birra.

mercoledì 9 ottobre 2013

Mamma, ma quanto costa una lacrima?

Odio iniziare con "quand'ero bambina" ma, stavolta, mi toccherà farlo.
Dicevo, insomma, quand'ero bambina c'era una cosa che proprio non capivo: perchè certi adulti capissero i bambini ed altri no.
Cioè che ti serve tutta quella fatica per diventare grande, la scuola, i brufoli, i primi amori, le versioni di latino, le equazioni (si chiamano così no?) di quarto grado se poi, da grande, non capisci i bambini?
La maestra Rosa ad esempio i bambini li capiva benissimo. Raf il giornalaio era simpatico.
Ma certi adulti proprio no.
Ero una bambina strana.
E le cose non sono migliorate moltissimo col tempo.
Ah, e poi non mi piaceva e non  mi è mai piaciuta Alice nel paese delle meraviglie.
Cioè mi piacevano solo alcune cose, come le tazze da the del Bianconiglio e le "Ooo" di fumo del Brucaliffo.
Per il resto Alice grande grande, Alice piccola piccola, il signor serratura e le carte da poker cattive e taglienti mi hanno regalato solo un po' di incubi ed il fatto di non saper giocare neppure a scopa.
Invece c'era un signore che mi piaceva un sacco.
Un signore che non solo capiva i bambini, ma che sapeva raccontare anche delle storie bellissime.
Al telefono, tutte le sere.
Delle storie dove non c'era Alice, ma la meraviglia si: la meraviglia e lo stupore incantato e libero dell'infanzia.
C'era un omino di niente, vestito di niente che viaggiava in una strada di niente, che non conduceva da nessuna parte. Là i topi mangiavano solo i buchi del formaggio e i gatti avevano artigli di niente.
Anche i muri erano fatti di niente e l'omino, che non ci credeva, per troppo slancio passò dall'altra parte.
Ma anche di là non c'era niente di niente.
Poi c'era Alice Cascherina che cascava sempre dappertutto. Come mio cugino da piccolo.
C'era quel grandissimo esploratore e viaggiatore di Giovannino Perdigiorno e c'era una marionetta irrequieta, che non sopportava i fili del suo burattinaio e che poi, un giorno....
- E che poi un giorno?

E poi....un giorno......


Se senti il telefono squillare ( e non è Tecnocasa e neppure la Wind) magari è:


martedì 8 ottobre 2013

Io sono uno a leggere, loro sono milioni a scrivere.

Non sono mai stata una fan.
Nel senso che, se fan significa essere una di quelle cose che insegue un cantante per strada, o rompe la pace del silenzio di un ballerino famoso mentre assapora il suo centrifugato di finocchio e mandarino al bar, o che tallona un calciatore mentre compra delle mutande attillate da Tezenis, ecco io non sono mai stata una fan.
Ma…
Immagina di essere in possesso di una matrioska.
Quindi abbandona la fretta di scoprire cosa viene dopo, e soprattutto l’ossessione di scoprire perché dopo c’è ancora qualcosa.
Immagina poi il tuo piatto preferito, la tua panchina preferita.
La tua coperta di lana più bella.
E pensa al tuo libro, quello che avevi in mano in quel momento lì.
A quella pagina che ti ha creato un dubbio, una domanda, una rabbia, una fitta o un sorriso.
Io per esempio, ad un certo punto della mia vita, avrei voluto incontrare Gianni Rodari e chiedergli perché nelle sue Stagioni dice che anche quando viene l’estate per i poveri è sempre inverno.
Ecco, hai presente?
Allora fermati, entra nel primo paninaro o nel primo sushi che trovi (dipende dai tuoi gusti cibico-letterari).
Siediti sulla prima panchina sotto il sole.
Lettore, te la regalo.
Ti regalo tutto.
Ti regalo questo.
David Foster Wallace che mangia con le mani perché non sa agganciare con le bacchette un pezzo di pesce crudo.
 Khaled Hosseini che ti presenta i suoi due bambini che parlano benissimo il farsi, oltre che l’inglese e forse altre tre lingue.
Siri Hustvedt e Paul Auster che si amano da oltre trent’anni nella loro Manhattan ma in quella stessa casa, insieme, non riescono a scrivere.
Tom Morris che si sveglia alle cinque del mattino e, con le prime luci dell’alba, iniziare a scrivere, rigorosamente a mano, e prosegue sino a quando riesce a sopportare la fatica di tenere in mano la matita che scorre sulle pagine del suo amato block-notes.
Ti regalo delle curiosità da Novella 6000 scritte con la sapienza di John Freeman.
Ti regalo soprattutto lei: la gran voglia di conoscerli tutti, questi uomini e queste donne qui.

Lo sai leggere uno scrittore?


sabato 5 ottobre 2013

Donne ed elefanti non dimenticano

Oggi giornata meravigliosa per la vita della libraia che scrive. 
C'erano i portici. 
E quelli a Torino ci sono sempre. 
Ma oggi erano di carta. 
Erano il Po, la Dora, la Senna, il Tevere, l'Arno, il Tanaro, il Danubio, il Reno. 
Tutti fatti di lettere e copertine colorate.

E per tutto il pomeriggio ho pensato a questo istante.
Perchè questo libro è un fiume che mi parte dalla pancia.
Quindi chiedo venia, ma ne scrivo così.
Come fiume. 

Che cambio colore in base al tempo. 
Che mi riempio degli occhi di chi mi guarda e dei detriti di chi getta.
Questo libro non è un libro.

Avevamo il mostro in casa e non ce ne eravamo accorti.

Questo è Sara, Michelle, Valentina, Shamila, Deborah, Anna, Francesca.
E' Marilia, che portava in grembo il suo bambino.
E' Lucia, che vivrà per sempre con il volto segnato dall'acido.
Questo non è una statistica Istat.
Questo è Ferite a morte. 
Per chi della morte ci è morto e per chi ne vivrà sul volto, sul corpo e sull'anima sempre un pezzettino indelebile.
Ogni giorno.
Da leggere con occhi bagnati ed indignati.





venerdì 4 ottobre 2013

Tirando su col naso, come un vecchio rimbecillito

Secondo Miriam era quella la mia vera passione. "C'è chi colleziona francobolli, o scatole di fiammiferi" mi ha detto una volta. "Tu collezioni rancori".

Una cuoca non può non assaggiare il cibo che sta preparando.
Una libraia non può non aver letto il libro che ti sta consegnando.
O comunque qui, cari, funziona così.
In questo caso questo ammetto di aver esagerato, quantomeno nelle quantità.
Questo è un libro perfetto di sale, cottura, proporzioni, punteggiature e riflessioni.

I figli, le mogli, i vizi, le malattie, un processo per omicidio: Barney Panofsky nella vita non si è fatto mancare nulla.
Dopo il suicidio della prima moglie, l'intervallo di un secondo matrimonio (con una mezza matta isterica) e una terza, felice unione la meravigliosa Miriam, che lo lascia dopo un tradimento, Barney è solo. 
È solo con i suoi ricordi, malgrado gli amici, i nemici e i figli. 
È solo con la sua carriera di autore di sit-com televisive alla Totally Unnecessary Productions.
È solo con le sue malattie (la prostata infiammata, la sciatica, l'enfisema) e l'amatissimo whisky. 
Ora vuole dare la sua versione dei fatti, di tutti i fatti che l'hanno visto coinvolto.
Lo ha pungolato un amico-nemico che sta per pubblicare un libro che lo diffama.

La versione di Barney sarà cosi chiarificatrice come voleva essere? 
Non importa.
Non è questo.
Entrate fisicamente e compratene tutti.

E boh….Grazie Mordecai .



Là, nel pozzo dei ricordi

Prendi dei frutti con dei nomi strani, tanti amici, tanti libri, una suora, un prete che pesa cento chili, una mamma e una donna, la tua donna, incinta, che non ami più.
Prendi Cristiano.
Prendi, oltre alla presenza, anche l’assenza.
L'assenza del padre, la storia più importante di tutte, esorcizzata con una miriade di altre storie e di presenze.
Senza un padre non si cresce, senza un padre non si è: la vita di Cristiano è uno sforzo continuo per riempire quell'assenza e costruire un'alternativa.

"Avevo impiegato trent'anni a costruirmi quel babbo tutto mio, ed era implacabile, era D'Artagnan, Sandokan, Tom Sawyer, Jean Valjean, il conte di Montecristo. Era pieno di ricordi di tutte le persone che avevo vissuto fino a quel momento, era sempre con me, indomabile come Cirano."

Adesso mescola bene.

Tutto il libro si avvita attorno a una metafora: l'idea del "frutto dimenticato".
Ogni autunno a Casola Valsenio, il paese natale di Cristiano, si celebra la festa dei frutti dimenticati. 
Piante ormai sconosciute, come le azzeruole, le giuggiole o le pere volpine.
Perché salvare questi frutti dall'oblio?
Non so.
Perché è necessario, forse?

Avete in mano un’autobiografia ragazzi che non è coniugata né al passato  all'imperfetto.
Che ha il sapore del presente e del futuro.
Come quei frutti, dimenticati ma non del tutto.


Ancora. Ancora una volta

Un’America diversa.
La sento così mentre ho questo libro tra le mani.
Un’America non fatta di aperitivi al tramonto su terrazze di Manhattan, di architetti d’interni e di donne impegnate in shopping.
“Non mi riconoscono certo al supermercato”, diceva lui al primo giornalista che lo intervistò per un giornaletto locale quando nel 1976 fu pubblicata la sua prima raccolta di racconti, Vuoi star zitta, per favore?
Eppure, con i suoi pochi libri, una dozzina in tutto, è diventato un punto di riferimento indiscutibile della letteratura americana del Novecento.
Sicuramente un destino imprevedibile per il figlio di un falegname dell’Oregon.
Un’ America lontana dai grattacieli, un paese dove le bollette non vengono mai pagate, dove le coppie litigano, cercando di tirare a campare, i mariti bevono e le donne si disperano, ma popolato in fondo di “brava gente, gente che ce la mette tutta”.

E qui seduta, osservando la signora indecisa tra le novità editoriali e le edizioni tascabili, leggo lui, che con la sua Le dita del piede mi ha fatto comprendere come un collant possa trasformarsi in un calzino, una gamba atletica in un peso da trascinare, ma come la voglia resti sempre simile a se stessa.
Un uomo che fa della sua poesia una dichiarazione d’amore alla vita.
Un uomo consapevole della sua malattia che non si vuole arrendere.
Che vuol sentire ancora, ed ancora una volta

Una bella voce, un tocco
sulla nuca, addirittura
uno sguardo di sfuggita. Qualsiasi cosa!

Lui è Carver, signori.
Scopritelo con mano ferma e cuore vibrante.




Io so dov’è, adesso.

Era Broadway. Era il 1996.
E, se chiudo gli occhi, sento l’odore del palco anche qui, tra queste mura rosse e di mattoni.
Lei decise così di raccogliere la testimonianza di duecento donne di tutte le età, razze, classi e professioni.
Voleva parlare del non detto.
O meglio, parlare del già detto in modo nuovo e vitale.
Parlare del dolore, della fame.
Parlare.
Dell’orgasmo dell’amore e del sudore della paura.
Della violenza sulle donne.

Credo che ciò che non si dice non venga visto, riconosciuto e ricordato. Ciò che non diciamo diventa un segreto, e i segreti spesso creano vergogna, paura e miti.

E' una storia seria, divertita, choccante, fantasiosa e drammatica.
E’ allegra, è triste, è disinibita, timida, esuberante, schiva, vanitosa, passionale, violata.
E lei. Siamo noi.

Storie di donne ma non solo per donne.


Perché se noi veniamo da Venere e lui, il maschio, da Marte, questo libro è  un bel  biglietto andata e ritorno da regalare, per un  viaggio che vale comprensioni e misteri di una vita.

giovedì 3 ottobre 2013

In un boccone ed in un sol fiato

Napoli. Una donna. Sette racconti.
Nulla di statico, o di lontano.
Non c’è la pizza o il mandolino o il mare da cornice.
Anzi.
Un susseguirsi quasi febbrile di eventi, di storie, di sensazioni.

“Se io fossi andata dove mi portava il cuore, sarei rimasta incinta a tredici anni nell’ape di Totonno il pezzaro”.

Realtà, cinismo ed ironia, tutto sapientemente racchiuso in poche, pochissime pagine.
Che senti il lutto del distacco troppo velocemente.
La prima volta era il 2003.
L’ultima l’inverno scorso.

Chissà se Totonno, nel frattempo, s’è sposato.


E la tigre sulla schiena

Ci sono delle cose che possono cambiarti la vita.
Che condizioneranno il tuo io futuro per sempre.
A me è successo, non tantissime volte, ma di sicuro cinque o otto.
La prima, quando ho scoperto quanto fossero dannatamente buoni insieme i gusti crema e pistacchio.
La seconda quando ho accettato il concetto di disordine, smettendola così di violentarmi.
La terza è stata lui. Sicuramente lui.
Ad un certo punto, e non so più da dove sia sbucata, mi è venuta l'idea che avrei dovuto diventare uno scrittore. Forse potevo scrivere le parole che non avevo letto, forse così facendo mi sarei scrollato dalla schiena quella tigre.
E’ una cosa che non si può spiegare.
E’ come se in un attimo capissi che c’è ed è lì tra le tue mani, una chiave di lettura.
Che c’è ed è esistito, in un tempo che solo quelle lettere stampate possono far rivivere come un eterno presente, qualcuno, in un angolo di mondo, che respirava e scriveva in modo inscindibile.
Non è un libro per sobri, sappilo.
Ecco. Se sei uno da degustazioni di champagne, non è ancora il tuo momento.
E’ un libro per scalatori.
Per corridori.
Per nuotatori folli.
Per bevitori di birra.
Per quelli anzi che sanno correre, bere e scalare insieme.
Lui è Charles.

E se lui è un Codardo, allora io sono bionda



Infinità finita

Era il 2005. 
Ricordo esattamente il giorno.
Era l’ultimo anno dei miei studi pisani.
C’è un momento ben preciso in cui un uomo deve fissare gli attimi sulla carta.
Ricordo di aver pensato questo mentre leggevo il suo libro in piazza santa Caterina.
Il racconto di un uomo nel suo delicato rapporto col tempo e con la memoria.

La ricostruzione di tasselli che riconosci essere tali solo quando ti fermi, solo quando ti concedi il lusso di pensare.
Per ragione, per noia.
O per dolore.
Il dolore di una morte improvvisa e la nascita di un “libro della memoria”.
La pace tra un padre ed un figlio che va oltre la carne ed il tempo.
Paul è il figlio, che cerca le tracce di un uomo che sembra non avere storia, che sembra non aver lasciato nulla prima, durante e dopo di sé.
Gli attimi son tutti qui.
Nell'invenzione della solitudine.
E nella sua accettazione, lontano dal rumore dei giorni.

Prima di ogni urlo, in fondo, c’è un silenzio.


Il libro del pescatore

- Buongiorno signora
- Buongiorno
- Senta vorrei fare un regalo
- Che genere le interessa
- Non so guardi, io non sono una lettrice accanita, ma vorrei un libro con dentro un po' di tutto
- Un libro con dentro un po' di tutto...Mmmm...Forse siamo sul secondo scaffale, lì, a sinistra...

Lui è un pescatore di parole, un raccoglitore di storie.
Questa volta la storia ha un nome proprio di persona: Irene.

Nel greco imparato al liceo esisteva la parola eirene, a indicare una pace. 
Le dettero quel nome dopo la tempesta.

Lei parla con gli occhi e con i gesti.

Dopo “I pesci non chiudono gli occhi”, un'altra storia di mare e di onde. 
E di occhi da pesce, come quelli tondi, di Irene.
Sordomuta per il mondo, forse non per tutti però.
Irene nuota di notte, perché di notte i segreti si nascondono più facilmente.

- Vede signora, dentro c'è un po' di tutto. Ci sono anche i segreti
- Lo prendo

Lo prenda.

Da assaporare lentamente, a mare o sul divano di casa, o sul tram che ti porta a lavoro.

Le onde, alle volte, sono ovunque.



mercoledì 2 ottobre 2013

Leggere parole leggère

Era il nome della mia libreria.
Cioè della libreria della mia testa.
Quella fatta con una scala in legno appoggiata al muro dell'entrata. Con le pareti un po' rosse e un po' con i mattoni.
La libreria che ho deciso di avere vent'anni fa. Ed anche il nome è di vent'anni fa.
Ma se una cosa dev'essere, e deve esistere, deve essere ed esistere per quello che è, nella sua sostanza e nella sua forma.
Ed allora scriverò e leggerò qui.
Inizierò da qui.
Da questa libreria.
Aperta in un autunno qualunque.
Dalle foglie un po' rosse e un po' arancioni.
Come le mura della mia testa.
Proprio come quelle lì.