venerdì 31 gennaio 2014

Cel'ho-cel'ho-mimanca

Dionne Warwick, Stevie Wonder, Elton John, Gladys Knight cantano That's what friends are for.
Mi piace un sacco. Con fuori il buio ed immaginando cumuli di neve.
A me le parole piacciono. Amo le frasi lunghe, i sospiri che non finiscono più. Mi piace quando, a volte, le parole nascondono quello che vogliono dire; o lo dicono in un modo diverso” .
Dicono che siano le nostre stesse mani ad annodare, tessere e sciogliere i fili della sorte
Che l'essere felici e l'esser tristi siano scelte che intraprendiamo più o meno consapevolmente.
Dicono un sacco di cose effettivamente.
C’è gente che quando dice, lo dice così bene e con lo sguardo così convinto, che sembra di saperlo sul serio.
A volte basta il gusto del gelato dopo un raffreddore che ti aveva impedito di sentire qualsiasi aroma a renderti felice.
Una pizza d’asporto verso casa di lui con le mani fredde.
Una lettera della tua amica fatta di cuori fucsia, stelline e tvb, risalente a prima che ti tradisse, prima che si truccasse così pesantemente volto ed anima, come fosse la peggiore delle puttane.
Anzi, chiedo venia alle puttane: loro vendono corpo e prestazione, non mettono all’asta amicizie.
E c’è una donna, che ho conosciuto, che tiene la sua felicità in una vecchia scarpa nascosta sul fondo dell'armadio: un assegno da 18.547.301 euro e 28 centesimi.
Durante l'estrazione del lotto, quella voce ha letto i numeri sui quali lei aveva puntato e che aveva scelto a caso tra date da ricordare, numeri di telefono affiorati d'un tratto e cifre scarabocchiate su una pagina consumata.
E' lei, proprio lei, ad aver vinto quella somma da capogiro. Adesso è la donna più ricca del paesino in cui vive e presto tutti la vorranno.
Tutti la guarderanno, la cercheranno, le offriranno dei caffè e dei sorrisi.
Dovrebbe essere felice, invasata da una voglia matta di darsi allo shopping più inutile e costoso, ma ha imparato che se qualcosa fa paura quella cosa non può essere la felicità.
Cioè non che la felicità, a volte, non ti blocchi le gambe e paralizzi il fiato.
Però non è paura quella.
E’ un po’ come la differenza che intercorre tra il sudore dopo una corsa ed il sudore dopo una colica da indigestione.
Così, anziché gridare ai quattro venti la sua fortuna, la nasconde accuratamente nell'armadio, lontana dagli occhi, lontana dal cuore.
Scrive liste infinite delle cose che non ha ma che vorrebbe avere, si nutre dei sogni che ha sempre sognato.
Scrive e riscrive cose grosse e di valore ma è come se in fondo, nel profondo, dove ristagnano le verità senza ammuffire, non volesse più di quel che ha.
Un papà che ogni sei minuti perde la memoria; una mamma morta troppo presto; due figli grandi e lontani; un blog e una merceria fatti entrambi di nastri e merletti; un marito rozzo e schietto, che la porta raramente in vacanza, che non le ricorda mai quanto è bella, ma che tuttavia c'è.
Sulla vetta e nell'abisso, nell'allegria e nel lutto. Lui è rimasto. Con le sue mani grosse e ruvide.
Le cose che non ho…
Odio i fiori perché appassiscono, perché sono facilmente sostituibili: morti quelli li rimpiazzi.
Son peggio dei papi, i fiori.
Non hanno radici e, se le hanno, se le son scordate.
Le cose che non ho…
Non ho occhi senza lacrime e alle lacrime spesso non rinuncio. Quella è la mia acqua, che bagna.
Non ho
Noh ho scatole in cui depositare le ansie, i ricordi ed i cappotti sotto la naftalina.
Non ho niente di cui mi debba vergognare, se non quando capita di avere gambe non perfettamente depilate al 15 di agosto, ma, per questo, c’ho Maria (grazie Maria).
Non ho conigli nel cilindro, anzi non ho né conigli, né cilindri.
Un giorno dirò perché ho sempre odiato Alice e il suo cazzo di paese delle meraviglie.
Non ho assi nella manica.
Non ho baguette sotto le ascelle.
Non ho pifferai magici con cui attirare l’attenzione e non ho la memoria di super Vichy per cui, tranquillo, il dolore ogni tanto lo dimentico (bugia, ho una memoria incredibile. Chi mi circonda lo sa).
Non ho lo smalto sulle unghie e non ho neanche un cappello.
Vedi, io sono qui.
Sono tutto quello che ho e sono anche tutto quello che mi manca.

Leggetelo, attaccati al termosifone, con una tisana al finocchio (ops, colpa di real time).


martedì 14 gennaio 2014

Quelli che...fino alla fine

Ci son delle cose che finiscono anche se tu la fine non la vedi.
Cioè non tutto è come il vasetto di yogurt che raschi raschi raschi fino in fondo, facendo quel rumore fastidioso, leccando magari anche i bordi fin quando, oggettivamente, non se ne può più, non ce n’è più.
Ci son delle cose che finiscono e ti fanno male come se ti si spezzasse un’unghia nello stomaco.
Mentre la ascoltavo mi si sono spezzate tutte le unghie nello stomaco che ricordavo di avere.
Ricordo quell’unghia lì che l’avevo mangiata nel 1994 e boh. Mi si è spezzata stasera.
Tanto comunque su Focus ho letto che le unghie non le digerisci mai.
Più facile digerire i fagioli al purgatorio di mia nonna (se non sai cosa siano i fagioli al purgatorio non ti basterà Google, ti manca proprio un pezzo).
E mentre parlava mi è ritornata in mente una delle mie immagini ricorrenti, di quelle che mi ricreo quando penso a delle cose tremendamente grosse.
Quelle immagini dei post-concerti, dei post-conferenze, dei post-eventi, dei post-cose insomma.
Di quando se ne sono andati tutti e tu puoi essere l’ultimo che va via, quello che spegne tutto e si porta in tasca il rumore e negli occhi la luce.
Io son quella che aspetta.
Che attende sempre un po’.
Quella che al cinema non esce alla fine dell'ultima scena, ma che si legge i titoli di coda, anche solo per conoscere il nome del parrucchiere che ha tinto di biondo e cotonato le piume di Jennifer Lawrence.
Quella che ai concerti di piazza, dopo un po’, ripassa, si fa il secondo giro e si gode lo smontaggio.
E a volte è tutto così.
Cioè che solo quando la musica finisce capisci il palco che c’era sotto.
E com’era stato montato.
Perché comunque il palco deve reggere tutto.
Deve reggere la tua band, e le chitarre, e la batteria, e le luci, e le travi con le americane per l’effetto giusto. Deve reggere te, che ci saltelli sopra vestito in finta pelle che stringiti pure ancora tra nuvole e lenzuola e che certe notti vai da Mario, altre da Gino, che però se sotto non è tutto tra terra, legno e ferro e con l’incastro perfetto, non vai da nessuna parte.
E non tutti i palchi fanno innalzare. Non da tutti c’è la visuale piena di quello che accade. Non da tutti riesce a scorgere il cartellone della ragazza dell’ultima fila.
Alcuni son bassi, altri piazzati nell’angolo sbagliato della strada.
I peggiori e quelli che mi fanno più paura son quelli che riesci a smontare in fretta.
Se i brutti palchi o i dolorosi pensieri potessero trasformarsi in sudore, basterebbe una doccia per mandarli via.
Invece no.
Con i brutti palchi non so.
Coi dolorosi pensieri no di certo.
Solo mentre smonti capisci quanta ambizione c’è nella costruzione delle cose.
C’è tutto il tuo essere, il tuo non essere , il sapere e quello che impari facendo.
E costruire poi genera un dono, quello del ricordo, della memoria.
Un po’ come i materassi di nuova generazione che si chiamano Memory, che prendono la forma del tuo corpo, che così puoi sia addormentarti velocemente sia capire quanto siano intense le corna che lui ti ha messo, se è stata solo ‘na sveltina per intenderci o se l’altra si è pure fermata a dormire.
Mentre costruisci ti ricordi se l’hai già fatto o se quella volta lì, per esempio, hai sbagliato. Ed allora provi a non sbagliare più.
A imparare di nuovo come si fa.
Come si fa a non sbagliare e a costruirne un pezzo in più.
Ad essere lì a cercare una soluzione quando sarebbe più facile buttarlo tutto e rifarlo da zero.
Ho comprato mille giornaletti di enigmistica nella mia vita ed ho capito che stavo per crescere quando ho smesso di lasciare a metà quelli che sbagliavo, preferendo iniziare un Bartezzaghi nuovo. Ho capito che la penna la puoi ripassare sopra e,magari, ti esce la parola corretta.
Magari no.
Ma riprovarci non mi fa più schifo ecco.
Sbagliare non mi fa più schifo.
Accettare l’errore dell’altro neppure.
Me la vivo tutta. Non smetto adesso. Non adesso. Non smetto di lottare adesso. Non adesso. Non smetto di amare adesso.
Soffro di più così? Pazienza

“Che la morte mi trovi viva, insomma, porca puttana”.

P.S.
Ah alla fine di questo non vi suggerisco nessuno libro.
Però voi fatelo. Leggete. O pensate.
Adesso