Siamo in tante.
Siamo messe in fila, una dietro l'altra, sulle bancarelle attira-turisti.
Siamo a prendere polvere sulle vostre mensole.
Siamo souvenir, cadeaux, siamo perfino appese in dei bistrot.
A volte ci appiccano sui fogli per fare strani collage.
Alcuni tra i vostri figli ci dipingono con dei colori improbabili nei lunghi ed unti pomeriggi dell'estate ragazzi.
Alcuni nostalgici hippy ci usano per far collanine. Gli hippy perforano qualsiasi cosa per far collanine.
Anzi stacci attento.
"Avvicinala alle orecchie" le dicono
"Cosa senti"? Le chiedono.
Ma lei non risponde
Chissà che dovrebbe sentire poveraccia con me attaccata al suo padiglione auricolare.
Certo che a volte siete proprio strani eh?
Non riuscite a vedere ciò che vi viene sbattuto sugli occhi, che vi cade davanti al naso, peró a ipotizzare tutti maestri.
Come quella bambina che quando dormiva nel lettone di mamma e papà credeva che fosse un'astronave. E allora chiudeva gli occhi e di sicuro sarebbe andata sulla Luna. Si vabbè Cristofanetti dei poveri, scendi va e svegliati, che manco in Umbria sei mai andata!
Che poi dico perché ci dovete raccogliere per metterci dentro insulsi barattoli di vetro?
Noi potremmo avere l'infinito.
" Avvicinala alle orecchie" le suggeriscono
"Le senti le onde?"
Dille di no! Cavolo! No!
Che onde vuoi sentire?
Se guardi Sissi ti senti na principessa? No!
E allora che onde vuoi sentire?
Le hai mai sentite le onde vere?
Io non ho il mare dentro.
Sono una conchiglia raccolta.
Ho il sogno del mare, il ricordo del mare, il rimpianto del mare.
Ora sono qui, attaccata alle tue orecchie.
Ed ho circa il mare dentro.
Esattamente come te.
venerdì 20 novembre 2015
giovedì 8 ottobre 2015
T’ho fottuto, Sherlock.
C’erano ombrelli.
E tazze, e vestiti, e scarpe, e vasi, e piatti. E vestiti, vestiti dappertutto.
Ma soprattutto ombrelli. C’erano ombrelli. Chiusi ed aperti. Colorati e spenti.
Sembrava si temesse il peggio. O che il peggio fosse già arrivato.
Io vivo nel caos, per cui non mi fece paura. Temo di più un’equazione di secondo grado, per intenderci.
L’unica cosa è che non riuscivo proprio a capire da dove fosse arrivata tutta quella roba.
La porta chiusa. Ce l’ho.
La finestra in cucina chiusa. Ce l’ho.
Quella in salotto. Chiusa pure lei.
In bagno. Chiusa.
Opzioni.
Cazzo è entrato un ladro, non ha rubato nulla, ha fatto solo diventare la mia casa un piccolo mondo antico fatto a mo’ di puzzle scomposto ed è scappato.
Poco credibile, Sherlock.
Ero ubriaca, cercavo le chiavi di casa, in un super raptus ho buttato per aria tutto, alla fine ho trovato le chiavi, sono uscita senza riporre ogni cosa al suo dannato posto e poiché ero ubriaca non mi ricordo nulla ed adesso che mi è passata la sbronza….
Troppo irreale, Sherlock.
Ok, ci sono.
E’ stato il gatto.
Io odio i gatti. Mai avuto gatti.
Mia sorella è allergica al pelo ed io li patisco.
In realtà credo di aver avuto un choc infantile. Li ho sentiti miagolare in modo strano, molto strano. Troppo strano.
Era primavera.
Ero piccola e credevo ci fosse un neonato nel nostro giardino. Un neonato abbandonato, impigliato tra i rovi. Cioè urlava come se fosse davvero così. Poi io leggevo molto ed ho sempre avuto quest’indole tragica. Per cui si, era ovvio, si trattava di un neonato abbandonato, tipo Anna dai capelli rossi, ma più neonato, impigliato tra i rovi.
Nonna Lina, novant’anni di schiena dritta e scorza sulla pelle, spezzò la mia ricerca del neonato impigliato dicendomi “ fiddja, sugnu due gatti in calore”.
Calore? Che calore nonna?
Brucia qualcosa? Bruciano i gatti? Bruciano i rovi con tutto il neonato impigliato?
“Nonna che calore?”
“Natalia mia (il mio nome seguito dal “mia” di solito precede una rivelazione. Tutt’ora), sono i gatti che fanno l’amore.
Avevo sette anni. Cazzo.
E sti lordi dei gatti non solo scopavano, non solo lo stavano facendo nel mio giardino (che se poi li vede papà li mette in punizione) ma dovevano proprio farlo urlando come un neonato impigliato tra i rovi?
Quindi no, non può essere stato il gatto, idiota di uno Sherlock!
Allora sarà di nuovo lei.
Non ci pensavo da un po’, ma di sicuro sarà colpa sua.
Eppure tra di noi c’è quel tacito accordo: io la ignoro e lei cerca di non darmi troppo fastidio.
Io rispetto i patti perché ho un tatuaggio interiore dal 2001 che recita che pacta sunt servanda.
Mi dirigo verso di lei allora. So già che farà freddo e caldo insieme. Che ci sarà sole e vento insieme.
Che sarà disordine di parole e di pensieri, che se ne stanno ordinati nel casino tutto loro.
Che le lettere saranno sul soffitto e che sul pavimento troverò delle piume d’oca che attendono l’inchiostro giusto.
E’ colpa della stanza aperta. Quella in cui entro solo io.
Si trova in fondo in fondo in fondo in fondo.
Ti sembra che non esista altro di là, che dopo la cucina ed il bagno ci siano le colonne d’ercole della nostra casa.
Ed invece lei c’è. La stanza aperta con le finestre che sbattono.
Io la conosco bene.
Mi fa degli spifferi che non puoi capire.
E quando rispetta il patto si nasconde.
Ma quando non lo rispetta è un turbinio di carte, vasi tazze e vestiti, vestiti dappertutto.
E ombrelli. Chiusi ed aperti.
T’ho fottuto, Sherlock.
E tazze, e vestiti, e scarpe, e vasi, e piatti. E vestiti, vestiti dappertutto.
Ma soprattutto ombrelli. C’erano ombrelli. Chiusi ed aperti. Colorati e spenti.
Sembrava si temesse il peggio. O che il peggio fosse già arrivato.
Io vivo nel caos, per cui non mi fece paura. Temo di più un’equazione di secondo grado, per intenderci.
L’unica cosa è che non riuscivo proprio a capire da dove fosse arrivata tutta quella roba.
La porta chiusa. Ce l’ho.
La finestra in cucina chiusa. Ce l’ho.
Quella in salotto. Chiusa pure lei.
In bagno. Chiusa.
Opzioni.
Cazzo è entrato un ladro, non ha rubato nulla, ha fatto solo diventare la mia casa un piccolo mondo antico fatto a mo’ di puzzle scomposto ed è scappato.
Poco credibile, Sherlock.
Ero ubriaca, cercavo le chiavi di casa, in un super raptus ho buttato per aria tutto, alla fine ho trovato le chiavi, sono uscita senza riporre ogni cosa al suo dannato posto e poiché ero ubriaca non mi ricordo nulla ed adesso che mi è passata la sbronza….
Troppo irreale, Sherlock.
Ok, ci sono.
E’ stato il gatto.
Io odio i gatti. Mai avuto gatti.
Mia sorella è allergica al pelo ed io li patisco.
In realtà credo di aver avuto un choc infantile. Li ho sentiti miagolare in modo strano, molto strano. Troppo strano.
Era primavera.
Ero piccola e credevo ci fosse un neonato nel nostro giardino. Un neonato abbandonato, impigliato tra i rovi. Cioè urlava come se fosse davvero così. Poi io leggevo molto ed ho sempre avuto quest’indole tragica. Per cui si, era ovvio, si trattava di un neonato abbandonato, tipo Anna dai capelli rossi, ma più neonato, impigliato tra i rovi.
Nonna Lina, novant’anni di schiena dritta e scorza sulla pelle, spezzò la mia ricerca del neonato impigliato dicendomi “ fiddja, sugnu due gatti in calore”.
Calore? Che calore nonna?
Brucia qualcosa? Bruciano i gatti? Bruciano i rovi con tutto il neonato impigliato?
“Nonna che calore?”
“Natalia mia (il mio nome seguito dal “mia” di solito precede una rivelazione. Tutt’ora), sono i gatti che fanno l’amore.
Avevo sette anni. Cazzo.
E sti lordi dei gatti non solo scopavano, non solo lo stavano facendo nel mio giardino (che se poi li vede papà li mette in punizione) ma dovevano proprio farlo urlando come un neonato impigliato tra i rovi?
Quindi no, non può essere stato il gatto, idiota di uno Sherlock!
Allora sarà di nuovo lei.
Non ci pensavo da un po’, ma di sicuro sarà colpa sua.
Eppure tra di noi c’è quel tacito accordo: io la ignoro e lei cerca di non darmi troppo fastidio.
Io rispetto i patti perché ho un tatuaggio interiore dal 2001 che recita che pacta sunt servanda.
Mi dirigo verso di lei allora. So già che farà freddo e caldo insieme. Che ci sarà sole e vento insieme.
Che sarà disordine di parole e di pensieri, che se ne stanno ordinati nel casino tutto loro.
Che le lettere saranno sul soffitto e che sul pavimento troverò delle piume d’oca che attendono l’inchiostro giusto.
E’ colpa della stanza aperta. Quella in cui entro solo io.
Si trova in fondo in fondo in fondo in fondo.
Ti sembra che non esista altro di là, che dopo la cucina ed il bagno ci siano le colonne d’ercole della nostra casa.
Ed invece lei c’è. La stanza aperta con le finestre che sbattono.
Io la conosco bene.
Mi fa degli spifferi che non puoi capire.
E quando rispetta il patto si nasconde.
Ma quando non lo rispetta è un turbinio di carte, vasi tazze e vestiti, vestiti dappertutto.
E ombrelli. Chiusi ed aperti.
T’ho fottuto, Sherlock.
lunedì 14 settembre 2015
Q.B.
Sono sempre stata poco incline alla precisione. Di quelle cose tipo sistemare e riporre le magliette senza neppure una piega, rifare il letto il minuto successivo dopo esserci scesa, rispettare i 210 grammi di questo e il bicchiere esattamente colmo di quell'altro. Io sono una "a occhio". Si.
A occhio.
E, considerando che anche mia madre, che è una scientifica/illuminista, che mi ha educata anche con questo criterio scientifico ed illuminista, il sale lo mette a occhio, direi che insomma non sto messa male.
E poichè ho dei grossi disturbi con l'errore, cioè mi piace, ed io piaccio a lui, ma abbiamo una relazione aperta e complicata, ecco io amo il "quanto basta"
Col "quanto basta" non sbagli mai.. Cioè quel che basta a te magari non basta a me e quindi sei sicuro di potermi dire che ho sbagliato?
Credo di essermi riempita la vita di q.b..
Ho un q.b. di rossetto rosso, che è uno dei pochi trucchi che ho e che uso.
Ho un q.b di yougurt in frigo, che mi dona l'idea di essere perfettamente in linea.
Ho un q.b. anche di biscotti. Cielooo, la trasgressione.
Ho un q.b. di sorrisi, accompagnati da parsimonia e gusto.
Ho un q.b. di Cesare Pavere, e di lune e di falò,.
Ho un q.b. di rimpianti, che così la nostalgia si sfama.
Ho un q.b. di sole addosso, che scioglie la neve e scalda le ossa.
Ho un q.b. di ninna nanne, anche se Giacomo dorme solo con le parole dette a caso sopra musiche da primo maggio. Che è pure il suo giorno. Nulla accade per caso.
Ho un q.b.di sogni che stanno in un q.b. di cassetti stretti e storti come le zucche.
Ho un q.b. di realtà, che quella a volte non basta mai. Cioè sei tu che non basti abbastanza per tutto quello che è.
Ho un q.b di libri, musiche e valigie per viaggiare.
Ho un q.b. di polvere sotto il tappeto, che comunque son meglio del q.b degli scheletri nell'armadio, che ho scelto di non avere per paura dei teschi.
Odio i teschi. Anzi meno male che è passata quella cazzo di moda che vedeva teschi ovunque che mi facevano proprio paura.
Che poi sei grande e tutto, ma ti ritrovi ad aver paura delle stesse cose che ti impietrivano vent'anni fa.
I teschi e le urla.
Q.b.
E prova a dirmi che sbaglio ora?
A occhio.
E, considerando che anche mia madre, che è una scientifica/illuminista, che mi ha educata anche con questo criterio scientifico ed illuminista, il sale lo mette a occhio, direi che insomma non sto messa male.
E poichè ho dei grossi disturbi con l'errore, cioè mi piace, ed io piaccio a lui, ma abbiamo una relazione aperta e complicata, ecco io amo il "quanto basta"
Col "quanto basta" non sbagli mai.. Cioè quel che basta a te magari non basta a me e quindi sei sicuro di potermi dire che ho sbagliato?
Credo di essermi riempita la vita di q.b..
Ho un q.b. di rossetto rosso, che è uno dei pochi trucchi che ho e che uso.
Ho un q.b di yougurt in frigo, che mi dona l'idea di essere perfettamente in linea.
Ho un q.b. anche di biscotti. Cielooo, la trasgressione.
Ho un q.b. di sorrisi, accompagnati da parsimonia e gusto.
Ho un q.b. di Cesare Pavere, e di lune e di falò,.
Ho un q.b. di rimpianti, che così la nostalgia si sfama.
Ho un q.b. di sole addosso, che scioglie la neve e scalda le ossa.
Ho un q.b. di ninna nanne, anche se Giacomo dorme solo con le parole dette a caso sopra musiche da primo maggio. Che è pure il suo giorno. Nulla accade per caso.
Ho un q.b.di sogni che stanno in un q.b. di cassetti stretti e storti come le zucche.
Ho un q.b. di realtà, che quella a volte non basta mai. Cioè sei tu che non basti abbastanza per tutto quello che è.
Ho un q.b di libri, musiche e valigie per viaggiare.
Ho un q.b. di polvere sotto il tappeto, che comunque son meglio del q.b degli scheletri nell'armadio, che ho scelto di non avere per paura dei teschi.
Odio i teschi. Anzi meno male che è passata quella cazzo di moda che vedeva teschi ovunque che mi facevano proprio paura.
Che poi sei grande e tutto, ma ti ritrovi ad aver paura delle stesse cose che ti impietrivano vent'anni fa.
I teschi e le urla.
Q.b.
E prova a dirmi che sbaglio ora?
giovedì 3 settembre 2015
Con 62 centimetri in più
Sono due o forse tre scalini di una scala di quelle che usi per fare i lavori in casa. Che poi da solo non ci riesci mai perchè soffri di vertigini quindi ti servi tu, il tuo coraggio e qualcuno che la scala te la regga. Tanto vale farlo fare a chi si sa arrampicare no?
Sono cinque palmi di mano, che se uno avesse cinque mani, ad esempio un pianista, sai che fico? Sai che sinfonie?
Sono 24 pollici, come il televisore che avevo nella camera singola all'università, che non c'avevo un vero e proprio tavolino su cui poggiarla all'inizio, prima di appropriarmi deliberatamente di quello posto in corridoio, traballante ma rosso, quindi bello. Ed è stato adagiato su una sedia per quattro mesi.
E' come il salto, non troppo in lungo, di uno che si allena per fare un salto in lungo migliore.
E' poco più della lunghezza della Gioconda, che per quanto te la fanno studiare dovrebbe essere alta 1 metro e 80.
E' come la Genesi di Salgado più un qualsiasi codice penale messi uno sull'altro.
E' come te, e come nessun altro forse.
Che è la prima volta volta che scrivo con questi 62 centimetri in più.
E non mi sento più alta, tantomeno più snella (no mamma tranquilla non sto dicendo che mi vedo grassa o tutte quelle cose che ti fanno incazzare, che lo so che è il gonfiore dell'utero e che ci vorranno i mesi che ci vorranno, tranqui).
Non sono più alta, nè più lungimirante, ma ho 62 centimetri in più, è un dato di fatto.
Che respirano, sgranano gli occhi, mi interrogano e chiedono quando vogliono, in modo assolutamente inequivocabile.
A volte interpreto, a volte meno.
Non sono più alta.
Sono solo più grande.
Sono cinque palmi di mano, che se uno avesse cinque mani, ad esempio un pianista, sai che fico? Sai che sinfonie?
Sono 24 pollici, come il televisore che avevo nella camera singola all'università, che non c'avevo un vero e proprio tavolino su cui poggiarla all'inizio, prima di appropriarmi deliberatamente di quello posto in corridoio, traballante ma rosso, quindi bello. Ed è stato adagiato su una sedia per quattro mesi.
E' come il salto, non troppo in lungo, di uno che si allena per fare un salto in lungo migliore.
E' poco più della lunghezza della Gioconda, che per quanto te la fanno studiare dovrebbe essere alta 1 metro e 80.
E' come la Genesi di Salgado più un qualsiasi codice penale messi uno sull'altro.
E' come te, e come nessun altro forse.
Che è la prima volta volta che scrivo con questi 62 centimetri in più.
E non mi sento più alta, tantomeno più snella (no mamma tranquilla non sto dicendo che mi vedo grassa o tutte quelle cose che ti fanno incazzare, che lo so che è il gonfiore dell'utero e che ci vorranno i mesi che ci vorranno, tranqui).
Non sono più alta, nè più lungimirante, ma ho 62 centimetri in più, è un dato di fatto.
Che respirano, sgranano gli occhi, mi interrogano e chiedono quando vogliono, in modo assolutamente inequivocabile.
A volte interpreto, a volte meno.
Non sono più alta.
Sono solo più grande.
martedì 3 febbraio 2015
Lo scatolone per te
Il 2014 se n'è andato, e si è portato via un sacco di cose. Robin Williams, ad esempio, e con lui quelle poesie e quegli sguardi che hanno infiammato il mio già bruciante cuore liceale. E la sua morte mi ha fatto tanto incazzare. La casa in cui vivevo da single e quello specchio che aveva capito da sempre tutto prima di me. Si è portato via, per scelta, la mia lunga chioma alla quale, dopo oltre vent'anni di onorato servizio, ho dato un taglio, una sorta di scivolo per la pensione, una meritata vacanza. Del resto stare sempre sulle mie spalle non è stato affatto un lavoro da quattro soldi. Ed ora sono qui, a guardare la coda di scatoloni crescere, più o meno proporzionalmente a te che, al calduccio, te la godi mentre io do indicazioni su cosa sarà dentro e cosa non ha l'X Factor per entrare nella nostra nuova casa.
E come sempre si sta avverando la favola della magia degli scatoloni, quella per cui c'è la fatina che ti fa riapparire cose che prima erano sicuramente smarrite, nel paradiso dei calzini spaiati, ma che lei, per darti un po' di gioia in mezzo alla fatica, ti fa riapparire. Ed è proprio così che mi è venuta l'idea. L'idea dello scatolone per te. No, non ti preoccupare, non ti farò sollevare alcun peso (a questo, per il momento, ci pensa papà, la sera). No no, lo spacchetterai e metterai a posto quando ti andrà, se ti andrà.
Ci metto dentro i colori, innanzitutto, e la fantasia che sarà tutta tua. Colora come sai, come puoi e come ti piace. E se ti diranno di non uscire fuori agli spazi, fuori dagli schemi, valuta tu se è il caso o no. Ci metto i bottoni, le parole ed filo, in modo che tu possa cucire tutto addosso a te, che calzi a pennello solo a te. Ci metto l'ironia con cui dovrai prendere la vita e la bellezza dei sorrisi (questi, in realtà, te li mette papà, che è decisamente più bravo di me). Ci metto delle mani a cui ti potrai aggrappare e le domande alle quali troveremo risposte insieme. Ci metto le radici, che sono le mie, ma saranno anche un po' le tue e che non si trovano mai troppo lontane dal cuore. Ah si, il cuore, il cuore e le ali di piuma, che ti facciano entrambi palpitare di gioia e, per essa, volare. Ci metto delle foto, di quelle con le date dietro, che costruiranno il palazzo dei ricordi. Ci metto un fiore, che sarà il segnalibro delle tue pagine e degli stivali di gomma assai spessi, con cui calpestare la lunga strada verso il futuro, alla faccia delle intemperie. Ecco, si credo di aver iniziato a mettere da parte un po' di cose per te.
Se poi hai bisogno di soldi per andare a mangiare la pizza con i compagni di classe, ecco, chiedili stasera a papà.
E come sempre si sta avverando la favola della magia degli scatoloni, quella per cui c'è la fatina che ti fa riapparire cose che prima erano sicuramente smarrite, nel paradiso dei calzini spaiati, ma che lei, per darti un po' di gioia in mezzo alla fatica, ti fa riapparire. Ed è proprio così che mi è venuta l'idea. L'idea dello scatolone per te. No, non ti preoccupare, non ti farò sollevare alcun peso (a questo, per il momento, ci pensa papà, la sera). No no, lo spacchetterai e metterai a posto quando ti andrà, se ti andrà.
Ci metto dentro i colori, innanzitutto, e la fantasia che sarà tutta tua. Colora come sai, come puoi e come ti piace. E se ti diranno di non uscire fuori agli spazi, fuori dagli schemi, valuta tu se è il caso o no. Ci metto i bottoni, le parole ed filo, in modo che tu possa cucire tutto addosso a te, che calzi a pennello solo a te. Ci metto l'ironia con cui dovrai prendere la vita e la bellezza dei sorrisi (questi, in realtà, te li mette papà, che è decisamente più bravo di me). Ci metto delle mani a cui ti potrai aggrappare e le domande alle quali troveremo risposte insieme. Ci metto le radici, che sono le mie, ma saranno anche un po' le tue e che non si trovano mai troppo lontane dal cuore. Ah si, il cuore, il cuore e le ali di piuma, che ti facciano entrambi palpitare di gioia e, per essa, volare. Ci metto delle foto, di quelle con le date dietro, che costruiranno il palazzo dei ricordi. Ci metto un fiore, che sarà il segnalibro delle tue pagine e degli stivali di gomma assai spessi, con cui calpestare la lunga strada verso il futuro, alla faccia delle intemperie. Ecco, si credo di aver iniziato a mettere da parte un po' di cose per te.
Se poi hai bisogno di soldi per andare a mangiare la pizza con i compagni di classe, ecco, chiedili stasera a papà.
mercoledì 7 gennaio 2015
Paragoni inesistenti
Sono una fissata delle parole, lo so, l'ho sempre saputo. Adoravo, da bambina, sfogliare il vocabolario alla ricerca delle parole e delle parolacce (dai che quando trovi "stronzo" fa ridere sempre). E perciò non pretendo che tu condivida ma te lo devo dire.
Ci sono paragoni che non hanno senso, metafore che utilizzi nella vita di tutti i giorni per spiegare delle cose o dei sentimenti ma che, lasciatelo dire, fanno cagare.
Di seguito, una breve lista, o elenco, o catalogo. Boh, fai tu.
1) Sei buono come il pane
Innanzitutto, il pane, è utile, prezioso, ma non è sempre buono. Ci son quelli confezionati già affettati ad esempio, che sanno di gommapiuma. Poi per carità, c'è gente che si lecca i baffi per il seitan, per cui va bene tutto.
In più i celiaci. Ci hai mai pensato ai celiaci? Potresti mai dire ad un celiaco che è buono come il pane? Minimo minimo c'ha na crisi e si gonfia.O sta sul cesso per 18 ore. Eppure ci sarà un buono anche tra i celiaci, no?
Per cui non so, fai come ti pare. Ma io 'sta metafora, se non altro, la limerei.
2) Furbo come una volpe.
Per carità, nulla contro le volpi, anzi son belle, eleganti ma.... avete presente le favole di Fedro o di Esopo? La volpe e la cicogna, la volpe e l'uva. Non so, ma così, a naso, mi è sempre parso che non ne uscisse mai da furba. Sopravvalutata, fintamente scaltra e poi punita, sia dalla cicogna che dall'alta uva. E poi in questo mondo di cravatte e furbi, mi piace sempre pensare che il mondo non sia loro, ma dei sensibili ed intelligenti, che magari l'uva la dividono. Ed il pane pure.
Ma quello che mi da' proprio ai nervi è questo:
3) Ti voglio bene come ad una sorella.
No, no e no. Il bene non deve avere l'etichetta come la frutta. Non esiste il bene Melinda o il bene Chiquita. Esiste il bene, senza bollino. Quello che si moltiplica. Quello che si vede ma che sa anche stare dietro le tende. Esistono gli sguardi che scaldano. Esiste tutto quello che ti pare, ma non paragonare mai nulla a tua sorella. Io ne ho una, una sola, e provo per lei tutti i beni del mondo. Per carità, non tolgo mica niente a nessuno, ognuno ha il suo pezzo di bene, ma il suo è solo suo. E li contiene tutti nell'essenza.
Ha il suo odore, ha il suo shampoo per capelli che si trasformano da cresta leonina a morbida seta. Ha i colori dei suoi pigiamini rosa, il rumore delle sue parole, delle sue lacrime, anche di quelle che da anni ingoia ogni volta che mi accompagna in aeroporto. Che noi non piangiamo mai sennò poi mamma che la frena? Ha i suoi numeri che io non so contare, ma che decifro in una sorta di codice Da Vinci tutto nostro. Ha le vite che ci siamo salvate a vicenda. Ha le sue scarpe col tacco che io derido ma che a lei stanno bene. Ha i suoi occhi che parlano, ha le sue riflessioni che durano mesi, anni. Quel bene lì è il bene delle nostre estati, dei nostri Natali, delle nostre Epifanie. Te la ricordi la Befana Ila'? Che contavamo chi delle due avesse più pezzi di carbone ai margini del camino, e al mattino scappavamo lì perchè dovevamo arrivare subito e per prime. Per me la Befana si è fermata lì, anni fa, con te, tra le calze, i 20 euro di mamma e papà ed il carbone che ci faceva incazzare per finta. E' un bene che non sa mai di rimpianto, perchè è vita, e la vita è sempre, è quella che scorre con il tuo stesso sangue e non c'è alcuna trasfusione di tempo, o lontananza che possa modificare quel colore e quelle vene.
Per cui, mio caro, non mi dire mai che mi vuoi bene come ad una sorella. Perchè se lo dici non ne hai una, è evidente. E mi spiace per te.
Ci sono paragoni che non hanno senso, metafore che utilizzi nella vita di tutti i giorni per spiegare delle cose o dei sentimenti ma che, lasciatelo dire, fanno cagare.
Di seguito, una breve lista, o elenco, o catalogo. Boh, fai tu.
1) Sei buono come il pane
Innanzitutto, il pane, è utile, prezioso, ma non è sempre buono. Ci son quelli confezionati già affettati ad esempio, che sanno di gommapiuma. Poi per carità, c'è gente che si lecca i baffi per il seitan, per cui va bene tutto.
In più i celiaci. Ci hai mai pensato ai celiaci? Potresti mai dire ad un celiaco che è buono come il pane? Minimo minimo c'ha na crisi e si gonfia.O sta sul cesso per 18 ore. Eppure ci sarà un buono anche tra i celiaci, no?
Per cui non so, fai come ti pare. Ma io 'sta metafora, se non altro, la limerei.
2) Furbo come una volpe.
Per carità, nulla contro le volpi, anzi son belle, eleganti ma.... avete presente le favole di Fedro o di Esopo? La volpe e la cicogna, la volpe e l'uva. Non so, ma così, a naso, mi è sempre parso che non ne uscisse mai da furba. Sopravvalutata, fintamente scaltra e poi punita, sia dalla cicogna che dall'alta uva. E poi in questo mondo di cravatte e furbi, mi piace sempre pensare che il mondo non sia loro, ma dei sensibili ed intelligenti, che magari l'uva la dividono. Ed il pane pure.
Ma quello che mi da' proprio ai nervi è questo:
3) Ti voglio bene come ad una sorella.
No, no e no. Il bene non deve avere l'etichetta come la frutta. Non esiste il bene Melinda o il bene Chiquita. Esiste il bene, senza bollino. Quello che si moltiplica. Quello che si vede ma che sa anche stare dietro le tende. Esistono gli sguardi che scaldano. Esiste tutto quello che ti pare, ma non paragonare mai nulla a tua sorella. Io ne ho una, una sola, e provo per lei tutti i beni del mondo. Per carità, non tolgo mica niente a nessuno, ognuno ha il suo pezzo di bene, ma il suo è solo suo. E li contiene tutti nell'essenza.
Ha il suo odore, ha il suo shampoo per capelli che si trasformano da cresta leonina a morbida seta. Ha i colori dei suoi pigiamini rosa, il rumore delle sue parole, delle sue lacrime, anche di quelle che da anni ingoia ogni volta che mi accompagna in aeroporto. Che noi non piangiamo mai sennò poi mamma che la frena? Ha i suoi numeri che io non so contare, ma che decifro in una sorta di codice Da Vinci tutto nostro. Ha le vite che ci siamo salvate a vicenda. Ha le sue scarpe col tacco che io derido ma che a lei stanno bene. Ha i suoi occhi che parlano, ha le sue riflessioni che durano mesi, anni. Quel bene lì è il bene delle nostre estati, dei nostri Natali, delle nostre Epifanie. Te la ricordi la Befana Ila'? Che contavamo chi delle due avesse più pezzi di carbone ai margini del camino, e al mattino scappavamo lì perchè dovevamo arrivare subito e per prime. Per me la Befana si è fermata lì, anni fa, con te, tra le calze, i 20 euro di mamma e papà ed il carbone che ci faceva incazzare per finta. E' un bene che non sa mai di rimpianto, perchè è vita, e la vita è sempre, è quella che scorre con il tuo stesso sangue e non c'è alcuna trasfusione di tempo, o lontananza che possa modificare quel colore e quelle vene.
Per cui, mio caro, non mi dire mai che mi vuoi bene come ad una sorella. Perchè se lo dici non ne hai una, è evidente. E mi spiace per te.
Anna Édes- Dezső Kosztolányi. Edizioni Anfora
"Il grido non nascondeva la rabbia”.
Ho conosciuto Anna Édes e Dezső Kosztolányi grazie a Mónika Szilágyi, che ne ha curato la traduzione e che, sin da ora, ringrazio.
La ringrazio perché leggere questo romanzo è stato più che imbattersi in un libro. E’ stato capire, imparare, a volte sospendere,per poi riprendere, la corsa.
In Anna Édes c’è tutto. C’ è un viaggio nel tempo e nei costumi dei borghesi in Ungheria durante gli anni del primo dopoguerra, c’è l’intrigo, c’è l’ansia delle aspettative, c’è il giallo.
Il romanzo si svolge quasi tutto all’interno del condominio, è un “Huis clos”.
Anna non esce quasi mai di casa. Quando lo fa però, ci si ritrova in strada con lei, alla scoperta di strade e di edifici nei suoi panni di serva, timida, a servizio di una famiglia descritta a tal punto da sembrare che i loro visi possano inciampare nelle tue giornate da un momento all’altro. La signora Vizy , che, lo ammetto, ho odiato, sottopone Anna a tutte le prove possibili, crea persino le condizioni perché ceda alla tentazione di rubare nella loro casa, ma niente, Anna è irreprensibile.
Anna non ruba, Anna non si concede, Anna è una serva perfetta. Irreprensibile e perfetta.
C’è una tensione palpabile in tutto il romanzo, a volte non si comprende bene cosa spinga i Vizy ad essere sempre così affannati.
Il comunismo? Il loro status borghese? La mancanza della reale conoscenza della felicità?
Ed in tutto questo Anna è tutto ciò che è, ed anche ciò che il lettore non si attenderebbe mai.
E' nella sorpresa delle situazioni e dei comportamenti che risiede l'unicità di questo romanzo: nulla è prevedibile e nulla è monocromatico.
"Accadde il miracolo quotidiano:stavano sognando".
Anna Édes- D.Kosztolányi. Trad. Mónika Szilágyi, Andrea Rényi- Edizioni Anfora
Ho conosciuto Anna Édes e Dezső Kosztolányi grazie a Mónika Szilágyi, che ne ha curato la traduzione e che, sin da ora, ringrazio.
La ringrazio perché leggere questo romanzo è stato più che imbattersi in un libro. E’ stato capire, imparare, a volte sospendere,per poi riprendere, la corsa.
In Anna Édes c’è tutto. C’ è un viaggio nel tempo e nei costumi dei borghesi in Ungheria durante gli anni del primo dopoguerra, c’è l’intrigo, c’è l’ansia delle aspettative, c’è il giallo.
Il romanzo si svolge quasi tutto all’interno del condominio, è un “Huis clos”.
Anna non esce quasi mai di casa. Quando lo fa però, ci si ritrova in strada con lei, alla scoperta di strade e di edifici nei suoi panni di serva, timida, a servizio di una famiglia descritta a tal punto da sembrare che i loro visi possano inciampare nelle tue giornate da un momento all’altro. La signora Vizy , che, lo ammetto, ho odiato, sottopone Anna a tutte le prove possibili, crea persino le condizioni perché ceda alla tentazione di rubare nella loro casa, ma niente, Anna è irreprensibile.
Anna non ruba, Anna non si concede, Anna è una serva perfetta. Irreprensibile e perfetta.
C’è una tensione palpabile in tutto il romanzo, a volte non si comprende bene cosa spinga i Vizy ad essere sempre così affannati.
Il comunismo? Il loro status borghese? La mancanza della reale conoscenza della felicità?
Ed in tutto questo Anna è tutto ciò che è, ed anche ciò che il lettore non si attenderebbe mai.
E' nella sorpresa delle situazioni e dei comportamenti che risiede l'unicità di questo romanzo: nulla è prevedibile e nulla è monocromatico.
"Accadde il miracolo quotidiano:stavano sognando".
Anna Édes- D.Kosztolányi. Trad. Mónika Szilágyi, Andrea Rényi- Edizioni Anfora
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