C’erano ombrelli.
E tazze, e vestiti, e scarpe, e vasi, e piatti. E vestiti, vestiti dappertutto.
Ma soprattutto ombrelli. C’erano ombrelli. Chiusi ed aperti. Colorati e spenti.
Sembrava si temesse il peggio. O che il peggio fosse già arrivato.
Io vivo nel caos, per cui non mi fece paura. Temo di più un’equazione di secondo grado, per intenderci.
L’unica cosa è che non riuscivo proprio a capire da dove fosse arrivata tutta quella roba.
La porta chiusa. Ce l’ho.
La finestra in cucina chiusa. Ce l’ho.
Quella in salotto. Chiusa pure lei.
In bagno. Chiusa.
Opzioni.
Cazzo è entrato un ladro, non ha rubato nulla, ha fatto solo diventare la mia casa un piccolo mondo antico fatto a mo’ di puzzle scomposto ed è scappato.
Poco credibile, Sherlock.
Ero ubriaca, cercavo le chiavi di casa, in un super raptus ho buttato per aria tutto, alla fine ho trovato le chiavi, sono uscita senza riporre ogni cosa al suo dannato posto e poiché ero ubriaca non mi ricordo nulla ed adesso che mi è passata la sbronza….
Troppo irreale, Sherlock.
Ok, ci sono.
E’ stato il gatto.
Io odio i gatti. Mai avuto gatti.
Mia sorella è allergica al pelo ed io li patisco.
In realtà credo di aver avuto un choc infantile. Li ho sentiti miagolare in modo strano, molto strano. Troppo strano.
Era primavera.
Ero piccola e credevo ci fosse un neonato nel nostro giardino. Un neonato abbandonato, impigliato tra i rovi. Cioè urlava come se fosse davvero così. Poi io leggevo molto ed ho sempre avuto quest’indole tragica. Per cui si, era ovvio, si trattava di un neonato abbandonato, tipo Anna dai capelli rossi, ma più neonato, impigliato tra i rovi.
Nonna Lina, novant’anni di schiena dritta e scorza sulla pelle, spezzò la mia ricerca del neonato impigliato dicendomi “ fiddja, sugnu due gatti in calore”.
Calore? Che calore nonna?
Brucia qualcosa? Bruciano i gatti? Bruciano i rovi con tutto il neonato impigliato?
“Nonna che calore?”
“Natalia mia (il mio nome seguito dal “mia” di solito precede una rivelazione. Tutt’ora), sono i gatti che fanno l’amore.
Avevo sette anni. Cazzo.
E sti lordi dei gatti non solo scopavano, non solo lo stavano facendo nel mio giardino (che se poi li vede papà li mette in punizione) ma dovevano proprio farlo urlando come un neonato impigliato tra i rovi?
Quindi no, non può essere stato il gatto, idiota di uno Sherlock!
Allora sarà di nuovo lei.
Non ci pensavo da un po’, ma di sicuro sarà colpa sua.
Eppure tra di noi c’è quel tacito accordo: io la ignoro e lei cerca di non darmi troppo fastidio.
Io rispetto i patti perché ho un tatuaggio interiore dal 2001 che recita che pacta sunt servanda.
Mi dirigo verso di lei allora. So già che farà freddo e caldo insieme. Che ci sarà sole e vento insieme.
Che sarà disordine di parole e di pensieri, che se ne stanno ordinati nel casino tutto loro.
Che le lettere saranno sul soffitto e che sul pavimento troverò delle piume d’oca che attendono l’inchiostro giusto.
E’ colpa della stanza aperta. Quella in cui entro solo io.
Si trova in fondo in fondo in fondo in fondo.
Ti sembra che non esista altro di là, che dopo la cucina ed il bagno ci siano le colonne d’ercole della nostra casa.
Ed invece lei c’è. La stanza aperta con le finestre che sbattono.
Io la conosco bene.
Mi fa degli spifferi che non puoi capire.
E quando rispetta il patto si nasconde.
Ma quando non lo rispetta è un turbinio di carte, vasi tazze e vestiti, vestiti dappertutto.
E ombrelli. Chiusi ed aperti.
T’ho fottuto, Sherlock.